
Due frame dello stralcio dell'intervista di Francesca Fagnani a Massimo Bossetti pubblicato sui Rai Play: l'intero dialogo in onda a Belve Crime questa sera alle 21.25
Milano – “Che disagio vedere quell’intervista”. Alberto Pellai – medico, psicoterapeuta dell'età evolutiva e ricercatore presso il dipartimento di Scienze biomediche dell'Università degli Studi di Milano – lo scrive in un articolo ospitato da “Famiglia Cristiana” e nel titolo di un articolato post sui social network. Tema: la partecipazione di Massimo Bossetti a Belve Crime, il programma tv condotto da Francesca Fagnani. Bossetti è stato il primo ospite nello show che vuole indagare, rappresentare, raccontare “testimoni e colpevoli di grandi casi di cronaca nera”.
Nel caso di Bossetti, secondo la giustizia italiana, siamo nel capitolo colpevoli. Il muratore di Mapello è stato condannato all’ergastolo (sentenza definitiva) per l’omicidio della giovanissima Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio 2011. La sentenza è definitiva. Un anno fa Bossetti è stato protagonista della serie Netflix “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio”, che già nel titolo stuzzicava il partito degli innocentisti (ricordano qualcosa Olindo e Rosa e Garlasco?). I genitori di Yara, dopo aver visto la serie, dissero: “A tutto c’è un limite”. No. Ora la vetrina di Belve Crime.
Scrive Pellai: “Mi sono chiesto, assistendo al programma, quale significato avesse intervistare in prime time un uomo che la legge ha condannato come assassino e predatore sessuale di una minorenne in tutti e tre i gradi di giudizio. Ho immaginato che sarebbe potuto servire a sensibilizzare l’opinione pubblica intorno al tema della pedofilia e della necessità di farne prevenzione sia con le potenziali vittime sia con i potenziali criminali. Avrebbe potuto aiutarci a capire come il male che abita dentro ciascuno di noi, necessita di essere governato e dominato, pensato e non agito. Purtroppo, l’intervista andata in onda ha lasciato queste intenzioni totalmente non assolte”.
Personalmente, aggiunge Pellai, “a me ha generato un grande disagio, sia come uomo, che come padre, che come professionista. Le domande dell’intervistatrice a volte hanno portato il colpevole (per la legge) a fare affermazioni riguardanti i familiari della vittima con risposte giudicanti e inappropriate, provocando un effetto di vittimizzazione secondaria che ho trovato quanto meno inopportuno. La stessa intervistatrice a volte viveva con enorme imbarazzo ciò che veniva detto nella sua trasmissione. Inoltre, le domande hanno girato a lungo intorno ai comportamenti sessuali del colpevole e della sua consorte. Si è saputo di tradimenti e di navigazioni pornografiche, di ricerche sui motori di ricerca relative a immagini e situazioni che potevano rappresentare il movente che ha condotto all’omicidio”.
Ora, aggiunge il professor Pellai, “su questi temi si può avere un duplice approccio: quello morboso che scandaglia il tema per aumentare la curiosità dello spettatore oppure quello scientifico che scandaglia un tema, per problematizzarlo e per renderlo un argomento da approfondire in termini educativi, preventivi, psicologici".

Il dato di fatto, aggiunge il professor Pellai, “è che il format di Belve non si addice a temi che appartengono ad altri format e che sono proprio strutturalmente diversi nelle intenzioni e nello sviluppo dei contenuti, perché pur partendo dalla storia della vittima (vedi “Amore criminale” scritto da Matilde D’Errico) o del colpevole (vedi “Storie Maledette” di Franca Leosini) non stimolano nello spettatore il bisogno di guardare dal buco della serratura, ma invitano a riflettere e pensare, fanno cultura educativa, preventiva e legale. Obiettivo che su vicende che hanno una ricaduta enorme sulla vita dei diretti interessati (ma anche della comunità tutta) dovrebbe rappresentare una priorità assoluta”.