RICCARDO
Eventi e fiere

Pinguini Tattici Nucleari al Meazza: "Per me qui si chiude un cerchio: ho realizzato il sogno di bambino"

Riccardo Zanotti: "Con occhi sognanti guardando i Queen a Wembley decisi che avrei voluto fare musica. La prima volta che sono salito sul palco di San Siro davanti a tutta quella gente mi sentivo svenire".

Riccardo Zanotti: "Con occhi sognanti guardando i Queen a Wembley decisi che avrei voluto fare musica. La prima volta che sono salito sul palco di San Siro davanti a tutta quella gente mi sentivo svenire".

Riccardo Zanotti: "Con occhi sognanti guardando i Queen a Wembley decisi che avrei voluto fare musica. La prima volta che sono salito sul palco di San Siro davanti a tutta quella gente mi sentivo svenire".

Zanotti

A San Siro si sono tenuti poco meno di 200 concerti dal 1980 a oggi. Capite bene che poter dire di averci suonato non è solo una grande soddisfazione, ma anche una responsabilità. Per quanto mi riguarda, è anche un cerchio che si chiude. Da bambino, guardando con occhi sognanti la VHS del concerto dei Queen a Wembley, decisi che avrei voluto “lavorare nella musica”.

Certo, non mi ci rivedevo molto nei panni di Freddie, perché non ho mai pensato di essere tagliato per il ruolo di frontman. Mi sarebbe anche solo piaciuto cambiare le corde della chitarra di Brian May, o lavorare al mixer, forse fare le riprese… insomma, sentivo il bisogno di partecipare in qualche modo. Di lì a breve, avrei deciso di formare la mia prima band, i Jamaica, in onore a Bob Marley (che, tra l’altro, fu il primo straniero a riempire San Siro nella storia, nel 1980). Quando, nel 2023, salii su quel palco per la prima volta, inizialmente mi sembrò di svenire. Mi aiutò pensare che non ero da solo, che c’era una squadra con me là dietro: tecnici, maestranze e amici. San Siro ti fa capire che un frontman da solo non vale niente, anche se fosse Freddie. Ci vuole lavoro di squadra, come nel calcio, così nella musica.

Un’altra cosa che ti salva sempre, quando pensi di svenire, è il pubblico. Lo so, suona come una banalità trita e ritrita, ma è sacrosanto sostenere che anche il pubblico faccia parte della famiglia. La gente decide di andare a un concerto in parte per ascoltare chi sta sul palco, ma anche per vedere sé stessa far parte, a sua volta, di qualcosa di grande.

I sentimenti si amplificano e le nostalgie si acuiscono: non saprei come descriverlo, ma quello stadio è come una moderna arca di Noè che ci salva ogni volta dal nostro personale diluvio universale.

Inutile dire che suonarci dentro è un’esperienza quasi bergsoniana, perché a San Siro il tempo scorre più veloce, ma la vita sembra andare all’incontrario. Tutti i ricordi riaffiorano: dalla prima chitarrina portata da Santa Lucia ai lunedì marinati al liceo. Ogni cosa sembra improvvisamente avere un senso, perché ti ha portato lì.

Non so se il tempio della musica milanese, a me, abbia insegnato qualcosa, perché la magia non insegna, stupisce. Di fronte a un prestigiatore ti chiedi solo: “ma come avrà fatto?”. San Siro continua a essere magico, senza un perché. Una volta sceso dal palco, l’adrenalina si dissipa e la magia si attenua. Puoi solo sperare di tornarci al più presto. Quest’estate lo farò, per ben due volte, con i Pinguini e tutta la squadra. Spero di non svenire, e per il resto non so che dire. It’s a kind of magic…