La “lecarda” delle cucine contadine

Emilio

Magni

Anselmo, detto "Selmin", è giunto al bar tutto contento e sorridente. Gli amici hanno subito voluto conoscere il motivo di tanta contentezza. "Selmin" ha spiegato di essere felice perché il giorno prima in un mercatino dell’usato aveva finalmente trovato "’na bèla lecarda" che lui aveva subito acquistato. "Selmin" è un appassionato collezionista di cose vecchie, tipiche del mondo contadino, in particolare pentole, tegami, paioli ed altre stoviglie di rame, tutta roba che è ora diventata molto rara. La "lecarda" è quindi uno di questi reperti tanto cari ai collezionisti di quegli utensili da cucina di solito chiamati i "rami", essendo tutti rigorosamente di un bel rame rossastro che è ora è molto ricercato. Uno dei pezzi più rari è proprio la "lecarda," attrezzo ormai quasi del tutto sconosciuto. Ma di che cosa si tratta, in particolare? La "lecarda" serviva per raccoglie il grasso che colava dalle pentole dove era rimasto dopo la cottura di carni e di intigoli vari, dagli spiedi e dalle graticole. Era una lamiera di rame con la parte inferiore curvata quasi fosse una grondaia. In alto portava dei ganci dove si appendevano le pentole con il grasso colante e a sua volta aveva un occhiello per appenderla al muro. Con il grasso colato la "resgiura", regina della famiglia patriarcale contadina, faceva quello che era chiamato lo strutto, "el strütt", ovvero un condimento che sostituiva i costosi burro e olio, quando cucinava carni, o insaporiva il minestrone. Nella lingua italiana questo utensile è la leccarda, con due "c". "Selmin" però l’aveva detta in dialetto, ovvero con una "c" sola. Leccarda è riportata in quasi tutti i dizionari ella lingua italiana, dal "Sabatini Coletti", al "Devoro Oli", al "Di Mauro". Il grasso colato nella "lecarda" del "Selmin" richiama a un bel modo di dire del dialetto milanese. "Quel lì l’è un grass del rost". Indicava un tipo prepotente, un "poco di buono", un rompiscatole, un "malnatt", per usare un altro termine del dialetto.

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