
Lo skyline di Porta Nuova visto dal terrazzo all'ultimo piano della Torre Velasca appena restaurata
Milano, 20 luglio 2025 – “Le città sono splendide invenzioni”, secondo Carlo Ratti, architetto, urbanista, professore al Mit di Boston e al Politecnico di Milano, cofondatore dello studio internazionale Cra-Carlo Ratti associati, curatore della 19esima Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. “Ci permettono di fare insieme cose che altrimenti non potremmo fare”.
E Milano, sostiene, da città cupa e industriale, “nell’ultimo decennio è stata l’unica in Italia capace di sostenere un ruolo importante sulla scena mondiale. È stata premiata la sua capacità di essere un laboratorio”. Ed è questo il punto di vista dal quale parte Ratti, al netto delle questioni giudiziarie. “Possiamo discutere se un nuovo grattacielo sia bello o brutto, ma a livello urbano il cambiamento è stato positivo”.

Architetto che idea si è fatto su ciò che accade a Milano?
“Ho seguito la vicenda principalmente dai giornali, soprattutto dagli Stati Uniti – sono rientrato da New York solo ieri. Mi sembra ci siano due livelli da considerare: da un lato, l’aspetto giudiziario, su cui si deve esprimere la magistratura. Dall’altro, un problema più profondo e sociale: dopo anni di crescita, Milano rischia di diventare una città troppo esclusiva per i suoi stessi abitanti. Ma ogni crisi è anche un’opportunità. Dopo la corsa, può essere il momento di fermarsi a riflettere: dove vuole andare Milano domani?”.
Sembra il cuore del problema.
“Da architetto e urbanista vedo chiaramente che c’è un problema strutturale: la normativa urbanistica in Italia è un labirinto di regole, spesso opache e contraddittorie. In un sistema così complicato è possibile che qualcuno se ne approfitti. Servirebbe una grande operazione di semplificazione, nazionale e locale. Potrebbe essere un programma bipartisan con ricadute molto positive”.

Un esempio concreto?
“I nuovi strumenti digitali potrebbero aiutare a rendere i processi veloci e trasparenti, come insegna Singapore. Poi la rigida separazione tra funzioni urbane – abitazioni, uffici, commercio – è un residuo novecentesco che oggi ha poco senso. Soprattutto dopo i cambiamenti nel modo di vivere e lavorare portati dal Covid. In uno studio realizzato al Mit con l’economista Ed Glaeser, abbiamo visto che rimuovere certi vincoli urbanistici aiuta a creare città più vivibili. Serve un’urbanistica più trasparente, basata su pochi principi chiari. Partirei da questo: dato che in Italia la popolazione non cambia e gli standard nemmeno, zero consumo di suolo, ovunque”.
Si corre il rischio di buttare via il modello di una Milano finalmente europea...
“Il successo di Milano negli ultimi dieci anni è sotto gli occhi di tutti. È l’unica città italiana davvero globale, una porta sull’Europa, un polo di attrazione per talenti internazionali grazie a università come il Politecnico e la Bocconi”.
Ma una città di successo deve per forza essere anche e solo una città per ricchi?
“No, ma il successo urbano ha un prezzo. Succede da quando sono nate le città circa 10.000 anni fa: quando una area urbana ha successo e attrae persone, i beni scarseggiano – in primis il suolo – e i prezzi salgono. È un problema, certo, ma come si dice in inglese: “a good problem to have”. L’alternativa è il declino, lo svuotamento. Pensiamo a Detroit o Cleveland”.
Una prospettiva spaventosa. Quali sono i correttivi?
“Bisogna evitare che si creino bolle speculative, come in borsa. E poi esistono strumenti efficaci per garantire l’equilibrio della civitas, della comunità cittadina. Incentivi per costruire di più se si destinano quote di alloggi a prezzi convenzionati. Un modo per bilanciare crescita e inclusività”.
E poi?
“Ascoltare i cittadini facendo leva sull’intelligenza collettiva. Mettere in campo quei correttivi che consolidino, senza rinnegare, il successo del modello Milano e del modello Lombardia. Costruire il futuro è sempre questione di scelte”.