ENRICO CAMANZI
Cultura e Spettacoli

The Mads, per sempre giovani: 45 anni nel segno del modernismo fra beat e pub rock

La band milanese, formatasi nel 1979 e riunita nel 2012, presenta al Ragoo il nuovo disco “Time by Time”. Marco, cantante e chitarrista ritmico: “Siamo ancora vivi e in buona salute, quindi perché dovremmo pensare a gettare la spugna?

Una recente foto dal vivo dei The Mads (Mary Parr)

Una recente foto dal vivo dei The Mads (Mary Parr)

Milano, 20 ottobre 2024 – I the Mads sono un miracolo. Alieni sbarbati, piovono sul pianeta Milano alla fine degli anni ‘70. In un’epoca segnata da cascami hippy e dagli ultimi drammatici fuochi della violenza politica ma anche dalla creatività furiosa e ribelle del Virus, il centro sociale che ha “insegnato” il punk all’Italia, rappresentano un’anomalia nel ribollente panorama delle sottoculture milanesi.

Sul palcoscenico portano etica ed estetica mod, con un sound che ha nei Jam di Paul Weller il principale – seppur non l’unico – riferimento musicale. In quattro anni di attività si distinguono per i loro live infuocati, ma non riescono a lasciare alcuna testimonianza su supporto concreto della loro energia.

Poi, nel 2012, a quasi trent’anni dalla fine delle trasmissioni, si ritrovano, in formazione originale, e iniziano a riannodare tutti i fili di un’esperienza troppo preziosa per rimanere a prendere polvere nelle memorie dei quattro componenti della band e di chi li aveva visti dal vivo. Macinano concerti e dischi – l’lp Orange Plane ma anche una serie di singoli ed ep – fino all’ultimo Time by Time, in uscita, che verrà presentato mercoledì 23 al Ragoo (viale Monza 140), con inizio alle 21. Ne parliamo con Marco, cantante e chitarrista ritmico, e Captain Stax, il quinto Mads, produttore, fotografo e amico inseparabile della band

Quali sono le differenze tra questo album e il precedente?

"Time by time, pur rimanendo nell'ambito del beat di fattura anglosassone, è più arrangiato. Ci sono dei piccoli esperimenti, forse un po’ più contemporanei, come Rabbit on the run, che è un mid tempo funk. O Wonderful sunday, un pezzo scritto da Toni (l’altro chitarrista, ndr) che nasce in casa con un andamento quasi latino e successivamente viene arrangiato da Marco con un’atmosfera quasi fusion, in alcuni punti, pur mantenendo il ritmo beat e la melodia originale. C’è anche un pezzo di ispirazione giamaicana, Chuck's chicks e una cover – Never ever, un tributo agli Action, storica mod band sixties – che in Orange Plane non avevamo inserito”.

Cosa penserebbero i Mads del 1979 dei Mads del 2024?

I Mads degli esordi, in una foto scattata nel 1981 al Leoncavallo
I Mads degli esordi, in una foto scattata nel 1981 al Leoncavallo

"Che i Mads del 2024, rispetto a quelli degli esordi, sono molto più preparati. E che è un miracolo che ci siamo ritrovati dopo una lunga pausa e siamo ancora qui tutti insieme dopo quarantacinque anni, vivi e in buona salute”. 

Cosa è cambiato da quando salivate sul palco a 18 anni?

"Io (risponde Marco, ndr) saltavo come un grillo, adesso non riesco neppure ad alzare le gambe. Non è che fossi Pete Townshend (il chitarrista degli Who, noto per la sua energia dal vivo, ndr), ma mi dimenavo e giravo in lungo e in largo. Ero un irrequieto. Adesso sto molto più attento all’esecuzione. In primis all’utilizzo della voce, ma anche a come suono della chitarra”.

Vi spiace non aver inciso dischi nella prima parte vostra della carriera?

"Devo dire che da questo punto di vista siamo stati premiati successivamente, dopo che ci siamo riformati, dato che sono usciti i pezzi incisi all’epoca, sia per la Well Suspect, l’etichetta inglese per cui abbiamo firmato, sia per la compilation dedicata al mod revival firmata da Eddie Piller (storico esponente della scena mod britannica e fondatore della Acid Jazz, ndr). Sembra brutto dire che sia un riconoscimento alla carriera, perché la nostra carriera ora è ben viva, ma è sicuramente un riconoscimento della continuità che ha segnato l’esperienza della band, pur a distanza di anni. Per altro ci sono anche alcuni retroscena sull’assenza di nostre testimonianze sonore agli esordi”.

Quali?

"Allora non volevamo uscire per etichette indipendenti, puntavamo alle major. Ed eravamo anche stati contattati da qualche label, i cui dirigenti avevano ascoltato i pezzi e li avevano graditi. Però avrebbero voluto fare le cose alla loro maniera, per esempio tenendo solo alcuni di noi e utilizzando, al posto dei componenti originali, alcuni turnisti. Oppure avrebbero voluto imporci di cantare in italiano, scelta che a noi non andava per nulla giù, nonostante alcuni esperimenti in questo senso che successivamente hanno visto la luce in un mini cd”.

C’è un aspetto di contemporaneità nella vostra musica o è totalmente radicata in un passato da rinnovare e valorizzare?

La copertina del nuovo disco, Time by Time
La copertina del nuovo disco, Time by Time

"Io ascolto la musica che propongo con il gruppo, e come me tutti gli altri, quindi non mi sembra che quell’epoca sia passata. In realtà per me la musica è morta negli anni ‘90, da allora non c’è stato più nulla che, per un conoscitore, non fosse una replica di quanto è stato sperimentato, con ottimi risultati, nel passato. D’altra parte non ci consideriamo dediti esclusivamente all’amarcord. Non ci piacciono le cose anacronistiche, tanto che se è vero che proponiamo canzoni anni ‘60, lo facciamo con un sound un po’ più sanguigno, tipico del decennio successivo. Con un approccio quasi da pub rock”.

C’è una cover che non avete ancora eseguito dal vivo, ma che vi piacerebbe inserire nei vostri set?

"Premesso che avere una band è come avere una fidanzata, ci sono sempre un po’ di lotte intestine e discussioni. E le cover rappresentano uno dei temi più ‘caldi’ da questo punto di vista. Personalmente, data la mia passione per il pub rock, per il rhythm and blues duro e sanguinolento, sceglierei uno dei capisaldi del genere, ‘Do anything you wanna do’, dal secondo album di Eddie and the Hot Rods. L’ultima che abbiamo provato, invece, è ‘Rebel rebel” di David Bowie. Anche la scelta delle cover, comunque, va pesata. Devono essere pezzi che possano essere riconosciuti da qualcuno, quindi c’è il rischio di cadere nel banale. A quel punto meglio eseguire un pezzo nostro in più. Noi, comunque, abbiamo sempre cercato di individuare canzoni che fossero in linea con il nostro stile”. 

Con quale gruppo, invece, vi piacerebbe esibirvi, potendo anche scegliere band che non ci sono più?

I The Mads al Parco Sempione nel 1982
I The Mads al Parco Sempione nel 1982

"Se ci è consentito spaziare con la fantasia, non possiamo che indicare i Jam. È il sogno della vita: i Jam che nel 1979 vengono a suonare a Milano e noi Mads che veniamo invitati a fare loro da supporto. Rimarrà per sempre uno sogno (ride, ndr)”.

Cosa consigliereste a un ragazzo che si avvicina oggi alla cultura mod?

"Lo ‘bombarderemmo’ di dischi. Di tutti i generi, perché quella mod è l’unica cultura alternativa che ti permette di ascoltare tutto. Io, per esempio, adesso sto ascoltando un sacco di dischi della Blue Note (storica etichetta jazz fondata alla fine degli anni ‘30)”.

Fino a quando andranno avanti a suonare i the Mads?

"A volte, in seguito alle discussioni che abbiamo, mi viene quasi la tentazione di gettare la spugna. Poi mi dico: ‘Che cosa faccio? Vado a fare la spesa? Porto in giro il cane?’ È da tanto tempo che stiamo insieme, ciascuno di noi con i suoi difetti, quindi non mi viene proprio da pensare a quando smetteremo”.