ENRICO CAMANZI
Cultura e Spettacoli

Stone Foundation, 25 anni nel segno del soul: “Il pubblico italiano ha un’energia incredibile”

La band inglese torna nel nostro Paese, stavolta come gruppo principale. Concerti a Milano e Bologna per festeggiare il quarto di secolo di carriera: “Abbiamo lavorato con alcuni dei nostri eroi dell’adolescenza e scoperto giovani talenti, ma il nostro percorso è ancora da scrivere”

Gli Stone Foundation tornano in Italia per una doppietta di concerti

Gli Stone Foundation tornano in Italia per una doppietta di concerti

Milano, 11 settembre 2025 – La passione per il soul e la musica afroamericana come stella polare, Paul Weller, il “modfather”, come nume tutelare, la curiosità per quello che gli artisti contemporanei sanno offrire come pallino.

Signori e signori, gli Stone Foundation. La band inglese, fra i migliori esempi di soul nel nuovo secolo, torna in Italia per una doppietta di concerti, stavolta da headliner. Appuntamento venerdì 19 settembre all’Arci Bellezza di Milano e il giorno dopo, sabato 20, al Locomotiv Club di Bologna. Un’occasione per fare quattro chiacchiere con Neil Jones, chitarrista e fondatore della band.

Quest’anno celebrate 25 anni di carriera. Siete soddisfatti del vostro percorso?

“Se, quando avevo 18 anni, mi avessi detto che come Stone Foundation avremmo raggiunto la metà dei risultati che abbiamo ottenuto, sarei stato più che soddisfatto. È stato un viaggio incredibile, ben lungi dall’essere concluso. Amazon Prime ha addirittura prodotto un film sulla nostra storia. Abbastanza surreale, a pensarci bene”.

Quali sono stati i momenti più belli in questi 25 anni?

“Fare da supporto agli Specials nel loro tour del 2011. Avere la possibilità di lavorare con alcuni dei nostri musicisti preferiti come Graham Parker, Hamish Stuart, William Bell e Bettye Lavette. Suonare in impianti incredibili in giro per il mondo. Aprire il Fuji Rock Festival in Giappone. E, non ultimo, riuscire a scrivere canzoni e lavorare con Paul Weller, il mio eroe dell’adolescenza”.

Che differenza c’è fra essere la band di supporto e suonare da headliner?

“Questione di tempo, a dirla tutta. Quando ci esibiamo come band principale abbiamo più tempo da goderci con il nostro pubblico. Anche se fare da supporto può avere i suoi vantaggi. Per esempio abbiamo l’occasione di ‘convertire’ nuovi appassionati, facendo conoscere loro la nostra musica”.

Che accoglienza avete avuto in Italia nei vostri precedenti concerti?

“Il nostro primo live a Milano, di supporto a Paul Weller, è stato davvero speciale. Il pubblico italiano ci ha trasmesso un’incredibile energia. E io sono stato invitato a unirmi all’ex cantante dei Jam sul palco per cantare ‘Broken Stones’, uno dei suoi pezzi più noti”.

Cosa preferite dell’esperienza di un tour? E qual è invece, invece, l’aspetto più faticoso?

“Per quanto ci riguarda, la fratellanza che si consolida fra noi componenti della band in questi viaggi. Ci sentiamo ‘la gang migliore della città’ quando siamo in tour’. Mi ricorda di quando vidi per la prima volta la E Street Band. Fare i chilometri ed esibirci ogni sera ci fa sentire quasi una persona sola. D’altro canto sono io a occuparmi di tutti gli affari in tour, compreso l’impegno per cercare di risparmiare qualche soldo. Un compito che può essere stressante, dato che se qualcosa va storto la responsabilità è solo mia”.

Gli Stone Foundation sul palco: fra le loro collaborazioni di eccellenza quella con Paul Weller di Jam e Style Council (Lee Cogswell)
Gli Stone Foundation sul palco: fra le loro collaborazioni di eccellenza quella con Paul Weller di Jam e Style Council (Lee Cogswell)

Quali sono gli artisti che vi hanno ispirato di più?

“Nelle prime fasi della nostra carriera io e Neil Sheasby (bassista e compositore per la band, ndr) ci siamo ritrovati uniti dalla comune passione per artisti come Traffic, Van Morrison, Dexys midnight runners e per etichette come Stax, Def Jam e Blue Note. Nel corso degli anni, però, siamo stati influenzati da numerosi altri solisti o band. E continuiamo a tenere le antenne ben dritte, per individuare nuove ispirazioni”.

Avete collaborato con molti artisti contemporanei. Chi sono i cantanti e le band soul della nuova generazione che consigliereste di ascoltare?

“Stimiamo interpreti e autori come Michael Kiwanuka e l’amico Jalen Ngonda, che ci ha accompagnato nel nostro tour britannico del 2018. Un altro dei nostri artisti contemporanei preferiti è Durand Jones, con il quale abbiamo avuto l’occasione di collaborare. Un altro dei nostri ‘pallini’ è Laville, un cantante da seguire con attenzione. Ha un grande talento. Lo potremmo definire un Luther Vandross dei tempi moderni”.

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Com’è stato, invece, condividere studio e palco con una leggenda come Paul Weller?

“È stata una delle gioie della mia vita professionale. È fantastico, oggi, poter considerare Paul un amico per me che lo ho avuto come idolo durante l’adolescenza. Scrivere e suonare con lui, per me, ha significato davvero tanto. E lui ci ha spronato e aiutato nel corso della nostra carriera. E’ stato fantastico nei nostri confronti”.

L’Inghilterra è la ‘casa’ del Northern Soul. Lei - o qualche altro componente della band - è stato in qualche modo coinvolto in questo movimento?

“Sono cresciuto nelle Midlands, un’area in cui la scena Northern Soul è sempre stata importante. Cittadine come Hinkley o Nuneaton, che si trovano vicino al mio paese natale, Tamworth, hanno ospitato a lungo eventi organizzati da animatori della scena. Ed è incredibile, per noi, aver avuto l’occasione di collaborare con eroi del soul anni ‘60 più oscuro come Nolan Porter o Joe ‘Pep’ Harris dei Fabolous Peps e degli Undisputed Truth. È stato grandioso che artisti simili, poco conosciuti nella loro terra natale, gli Stati Uniti, abbiano ottenuto l’apprezzamento che meritavano, qualche anno più tardi nel Regno Unito”.

Quali sono i suoi brani soul degli anni ‘60 preferiti?

“Così su due piedi mi vengono in mente ‘Ace of spades’ di O V Wright, ‘Western union man’ di William Bell, ‘Who’s making love’ di Johnnie Taylor, ‘Why don’t you try me’ di Maurice & Mac e ‘Tell the truth’ di Otis Redding. Mi piacciono in particolare i pezzi soul più ruvidi e intensi. Ho sempre amato, infatti, il sound di Memphis e poter stringere amicizia con persone come Boo Mitchell, figlio del produttore e musicista Willie Mitchell, anche in seguito a una serie di pellegrinaggi nel profondo Sud degli Stati Uniti, è stato fantastico”.

E quali sono, per lei, le voci migliori?

“Ce ne sono tantissime. Ma con Otis Redding non si può sbagliare. Ho avuto l’opportunità di passare del tempo con la famiglia di Otis a Macon, in Georgia, quando ero più giovane, per raccontare loro quanto la sua musica e la sua voce abbiano significato per me. Credo sia il migliore di tutti”.