
Pierpaolo Pretelli nei panni di Rocky, in scena al Nazionale dal 30 gennaio
Milano – Perché fai il pugile? “Perché non canto e non ballo”. Quella battuta di Rocky Balboa che nel film di John Avildsen strappa allo spettatore un mezzo sorriso finisce al tappeto davanti al ritmo incalzante di un musical in cui si canta, si balla, si rivivono le passioni di una saga di boxe, sudore e riscatto cresciuta per quarant’anni sopra e sotto al ring con la convinzione che “nessuno ti colpisce duro come la vita”.
In scena al Nazionale dal 30 gennaio al 9 febbraio, “Rocky The Musical” conta sulle liriche di Lynn Ahrens, le musiche di Stephen Flaherty e Bill Conti, mentre il libretto è firmato da Tony Thomas Meehan e dallo stesso Sylvester Stallone. Rocky è interpretato da Pierpaolo Pretelli e la sua fiamma Adriana da Giulia Ottonello. La produzione è di Fabrizio Di Fiore Entertainment, le scene di Italo Grassi, i costumi di Veronica Iozzi, le luci di Valerio Tiberi, la direzione musicale di Ivan Lazzara e Angelo Nigro. Regia di Luciano Cannito, che cura pure traduzione, adattamento e coreografie (con Fabrizio Prolli).

Pretelli, come si trova nei panni di boxeur?
“Per indole sono portato a sperimentare e, quando lo faccio, mi piace dare tutto me stesso. Rocky, così come ce l’ha raccontato al cinema Stallone, è un personaggio epico e per me è un onore rappresentarlo per la prima volta in Italia nel musical attinto dal blockbuster del 1976. Personaggio, fra l’altro, ideale per me che fino ai 23-24 anni ho fatto pugilato. Anche se non ho la stazza di Stallone, questo alle audizioni ha rappresentato un po’ il mio asso nella manica”.
Quanto le costa di palestra?
“‘Rocky’ è un musical molto fisico e quindi energicamente dispendioso che mi fa perdere circa un chilo a replica. Anche perché lo ‘Stallone italiano’ è quasi sempre in scena. Pure l’ambientazione non aiuta, perché Filadelfia d’inverno è fredda e quindi canotta, maglione, cappotto, guanti e cappello fanno sudare trasformando in certe scene il palco in una sauna”.
Differenze rispetto alla versione portata in scena nel 2012 dal regista Alex Timbers?
“Il linguaggio è diverso dallo slang usato nella versione inglese. Pure drammaturgicamente la storia cresce molto via via che per Balboa s’avvicina il momento della rivalsa, del combattimento finale con Apollo Creed, interpretato sulla scena da Robert Ediogu, che trasforma il teatro in un’arena coi pugili che raggiungono il ring passando tra il pubblico in un finale molto, molto, cinematografico”.
L’apice del racconto.
“Già. La storia d’amore del film cresce di pari passo con la voglia di farcela del suo protagonista, di rimanere in piedi sulle gambe davanti al campione del mondo, sovrapponendo i piani narrativi. Come nella pellicola di Avildsen, Rocky non vince l’incontro con Creed, ma conquista il cuore di Adriana, anzi di ‘Adrianaaaa’ come la chiama a squarciagola nel finale. Tutto accompagnato da musiche intramontabili”.
…a cominciare da “Gonna fly now” di Conti.
“Sì, mentre salgo la scalinata del Philadelphia Museum of Art che fa da cornice alla scena più famosa di quel film e relativi sequel. Ma nella colonna sonora c’è pure il celeberrimo tema di ‘Eye of the tiger’ attinto dal terzo capitolo della serie”.