
Sopra, De Biasi e Bonatti il 22 febbraio del 1965 (Archivio Mario De Biasi) Bonatti durante una salita di quegli anni e la copertina di Epoca dedicata alla prima solitaria invernale sulla parete Nord del Cervino
Milano, 20 febbraio 2025 – L’alpinista, l’esploratore che ha fatto sognare l’Italia del dopoguerra con le sue avventure e il fotografo che ha raccontato il nostro Paese, il mondo intero, la gente, la storia, l’arte attraverso le sue immagini. Walter Bonatti e Mario De Biasi insieme ai piedi del Cervino. A sessant’anni dall’impresa sulla Gran Becca, con la quale lo scalatore disse addio all’alpinismo estremo, dall’archivio del fotografo milanese, custodito dalla figlia Silvia, rispunta uno scatto che racconta un momento speciale. È il 22 febbraio del 1965, Walter Bonatti indossa ancora il cappello e la maschera con i quali ha affrontato l’impresa solitaria sulla grande Nord. Era rimasto lassù in mezzo a un labirinto verticale di ghiaccio e roccia per cinque giorni e quattro notti, prima di riuscire a raggiungere la cima.

"Il vuoto ossessivo”
Da solo, in inverno, affrontando temperature fino a -30 gradi sotto zero. L’ultima grande avventura verticale. Un’impresa che segnò il mondo dell’alpinismo. De Biasi, che lo aveva accompagnato fin sotto la parete lo guarda dritto negli occhi, elegante, in giacca e cravatta. Sorridono. Il sorriso di chi è ritornato fra i comuni mortali dopo aver sfidato la montagna, il “vuoto ossessivo” e le proprie paure. Il sorriso di chi ha aspettato per giorni un amico con il cuore in gola, dopo aver osservato tutte le notti quella lucina lassù in mezzo all’immensa parete Nord, per cercare un segnale, la certezza che Walter stava salendo e sarebbe sopravvissuto.
Ma perché De Biasi accompagnò Bonatti in una delle sue imprese più importanti? Walter e Mario erano diventati amici alla redazione di Epoca ed erano già stati protagonisti un anno prima di una spedizione in Siberia. Dove erano “quasi gelati”, sessanta gradi sotto zero, mento e naso divenuti ghiaccioli, come si vede in alcune foto. Bonatti nel libro “I miei ricordi” racconta gli attimi che avevano preceduto la salita al Cervino: “Al momento del commiato l’emozione mi tradisce. De Biasi, che si accorge del mio turbamento, trova un pretesto per accompagnarmi per un altro tratto”.

Il racconto
Ore più tardi: “Raggiungiamo la capanna Hörnli a pomeriggio avanzato. Decido di continuare la marcia fino ai piedi della parete. Riprendo a salire e De Biasi continua a seguirmi. Poco più avanti gli verrà sbarrato il cammino da uno scivolo di ghiaccio vivo. “Vorrei essere alpinista per poterti seguire”, dice De Biasi. “Non so dire una parola, uno nodo mi serra al gola. Riprendo il cammino senza voltarmi, non voglio vedere l’amico mentre si allontana. Eppure dovrebbe avviarsi, l’ora è tarda e una marcia lunga lo separa dal fondovalle. Nel superare un crepaccio sul ghiacciaio, un passo brusco mi obbliga a girarmi. De Biasi è ancora là. Adesso esce dalla mia gola un grido di saluto: “Tutto andrà bene!”, concludo. “Sì Walter”, risponde l’amico, e sparisce al di là della cresta. Si rivedranno cinque giorni dopo ai piedi del Cervino. La grande Nord era vinta, si poteva ridere.
Il ricordo della figlia Silvia
“Quello che mi stupisce di questa fotografia – spiega Silvia De Biasi –, è mio padre in giacca e cravatta in una situazione del genere. Primo perché mio papà non le metteva mai e poi perché credo non avesse nessun tipo di attrezzatura tecnica per affrontare quel percorso di avvicinamento”. L’archivio di Mario De Biasi è una finestra sul costume e sulla storia d’Italia e anche del mondo. Lo sa bene Silvia che in questi anni ha lavorato a tempo pieno per catalogare e ordinare il prezioso materiale di scatti. “Io ho conosciuto veramente mio padre riordinando le sue fotografie. Prima non c’era mai, non avrei potuto conoscerlo in un altro modo”, conclude.