ANDREA GIANNI
Cronaca

Youssef, morto a 18 anni a San Vittore. La sorella: “Non doveva trovarsi in quella cella, vogliamo giustizia”

La rabbia della famiglia: “Era un ragazzo fragile che doveva seguire un percorso di riabilitazione in una struttura specializzata”

Il carcere di San Vittore e, nel riquadro, Youssef Mokhtar Loka Barsom

Il carcere di San Vittore e, nel riquadro, Youssef Mokhtar Loka Barsom

Milano, 10 settembre 2024 – “La nostra famiglia andrà fino in fondo, vogliamo sapere come è morto mio fratello e perché è stato lasciato in carcere, in una struttura dove non avrebbe dovuto stare”. Georg chiede “giustizia” dopo la morte del fratello, Youssef Mokhtar Loka Barsom, vittima a 18 anni di un incendio divampato nella cella del carcere di San Vittore che condivideva con un altro detenuto, ora indagato per omicidio colposo. Youssef, arrivato in Italia dall’Egitto come minore non accompagnato dopo aver vissuto all’età di 15 anni la terribile esperienza di un campo di prigionia in Libia, secondo una perizia psichiatrica del Tribunale per i minorenni di Milano, depositata nell’ottobre del 2023, avrebbe dovuto seguire un “percorso di cura integrato in una struttura specializzata che assicuri in una prima fase un alto contenimento e un controllo stringente e continuativo, quale una comunità terapeutica protetta ad alta assistenza”.

Nella perizia, alla base dell’assoluzione del giovane all’epoca minorenne (assistito dall’avvocato Monica Bonessa) dall’accusa di rapina, per vizio totale di mente, gli esperti mettevano nero su bianco la “necessità di un contesto di cura altamente protetto che assicuri condizioni di cura integrate”, attraverso “un rapporto individualizzato e un’adeguata terapia farmacologica”. Un ragazzo in una condizione di “fragilità”, con una “assente capacità di inibizione dell’impulso tale da metterlo nella condizione di compromettere la propria e altrui integrità”. Poi Youssef ha raggiunto la maggiore età e lo scorso luglio, dopo un’altra rapina, per lui si sono aperte le porte del carcere di San Vittore, uno dei tanti detenuti in attesa di giudizio. A nulla sono valse le richieste del suo attuale legale, l’avvocato Marco Ciocchetta, per ottenere il trasferimento in un’altra struttura, proprio per le sue condizioni psichiche incompatibili con il regime carcerario. Per lui, però, nelle comunità non c’era posto, ed è finito in lista d’attesa. Intanto il pm Carlo Scalas ha aperto un’inchiesta, e si attendono gli esisti dell’autopsia sul cadavere carbonizzato, disposta per accertare le cause della morte.

“Mio fratello non si sarebbe mai tolto la vita – spiega Georg Barsom – non aveva mai espresso un simile proposito, e lui era una persona che diceva sempre in faccia quello che pensava. Era incapace di nascondere i suoi sentimenti. L’ho incontrato per l’ultima volta a luglio e non stava bene, sia fisicamente sia nella psiche. Una persona con i suoi problemi non avrebbe dovuto stare in carcere ma in una comunità protetta, per essere curato. Per questo qualcuno deve darci delle risposte, andremo fino in fondo perché sia fatta chiarezza sulle responsabilità”. Youssef in Italia poteva contare solo sul fratello maggiore, che ha un lavoro stabile nella cucina di un ristorante a Milano, città dove vive da 13 anni. Per un periodo hanno abitato insieme, fino a quando la situazione è diventata difficilmente gestibile. Youssef ha avuto problemi con la giustizia, è entrato in comunità ed è fuggito, ha vissuto sulla strada, fino al tragico epilogo. Un caso seguito dai servizi sociali del Comune di Milano e anche dalle autorità sanitarie. La perizia del 2023 stabiliva il “permanere di una condizione psichica di gravità caratterizzata da importanti limitazioni nel funzionamento cognitivo, psicoaffettivo e sociale”, era stata emessa una misura di sicurezza motivata dalla pericolosità sociale. Youssef, però, dopo l’ultimo reato è stato portato a San Vittore, dove ha perso la vita.