Incapace di intendere, analfabeta e solo: la breve vita disperata di Youssef, morto bruciato a 18 anni a San Vittore

L’avvocata che lo ha seguito fino al compimento della maggiore età si chiede: “Perché era in carcere? In passato era stato assolto per vizio di mente e affidato a comunità di cura”

Una protesta a San Vittore

Una protesta a San Vittore

Milano, 6 settembre 2024 – Youssef Barson Motkar Loka aveva appena 18 anni. È morto la scorsa notte, carbonizzato, in una cella di San Vittore dove si trovava dopo essere stato arrestato qualche mese fa per rapina. Si trovava in carcere in custodia cautelare in attesa di giudizio. Il rogo all'interno della cella, nella quale era presente anche un altro detenuto che è riuscito a mettersi in salvo e che adesso è stato indagato per omicidio colposo, sarebbe partito da un materasso nel tentativo di inscenare una protesta. 

La ricostruzione, comunque, è ancora tutta da verificare. E c’è anche da capire come mai il 18enne fosse dietro le sbarre. L’interrogativo sorge poiché il ragazzo, quando era ancora minorenne, per due volte era stato assolto per vizio totale di mente perché una perizia psichiatrica aveva certificato che non era in grado di intendere e di volere e, quindi, non poteva stare in una prigione.  

“Un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere", arrivato in Italia dall'Egitto con mani e piedi legati nella cucina di un barcone. La sua è una storia breve e disperata, che tocca molti punti fragili dell'accoglienza, della giustizia e della gestione del disagio mentale. Come detto, era stato assolto per vizio totale di mente. I giudici del Tribunale dei Minori avevano disposto l'applicazione della misura di sicurezza della comunità terapeutica ritenendolo “socialmente pericoloso”. Nello studio degli esperti datato 9 ottobre 2023 si legge che i dati clinici acquisiti "permettono di concludere per la necessità di cura di un contesto altamente protetto che assicuri condizioni di cura integrate in cui è da ritenersi essenziale un'adeguata terapia farmacologica". A illustrare il pregresso è l'avvocata Monica Bonessa, che lo ha assistito fino al compimento della maggiore età.

E dunque, perché Youssef era in carcere? Il suo attuale legale aveva chiesto al gip di acquisire la perizia psichiatrica e proprio poco prima che morisse aveva ricevuto la fissazione della data del processo immediato. Quella di prima “non valeva” anche se è difficile pensare che nel giro di pochi mesi Barson avesse acquisito forza mentale e lucidità per affrontare una detenzione tanto più nell'istituto più sovraffollato d'Italia.

"Era arrivato in Italia dall'Egitto, passando per la prigione in Libia, a bordo di un barcone quando era minorenne – racconta la legale –. L' avevano trovato legato nel bagno del barcone, punito per i suoi comportamenti respingenti verso gli altri. Ci siamo spesi tantissimo col Comune di Milano e con l'Ussm (servizi sociali per i minorenni per i minori autori di reato) del carcere Beccaria per aiutarlo nel corso degli anni. È stato in almeno cinque comunità diverse, dall'ultima è scappato quest'estate e da allora viveva in strada dove ha commesso l'ultima rapina ai danni di una signora. Faceva anche uso di stupefacenti".

Barson aveva difficoltà ad avere relazioni col prossimo: "Ogni volta che veniva avvicinato mostrava reazioni violente, era un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere, non sapeva tenere in mano nemmeno una penna. Negli ultimi mesi era stato ricoverato due volte, in una l'ospedale gli aveva fatto firmare una lettera di auto-dimissioni nonostante la sua patologia psichiatrica. Ai primi di luglio era stato accoltellato alla gola in strada e aveva provato a bussare all'ultima comunità in cui era stato dove però non erano riusciti ad accoglierlo anche per il suo stato di alterazione".

"A Milano aveva solo il fratello che non era in grado di gestirlo. Ultimamente chiedeva spesso della madre e del padre rimasti in Egitto e avevamo pensato di fare domanda per il suo rimpatrio, ma non c'è stato tempo".