MILANO – “Il mio primo giorno al Beccaria ho subìto quello che chiamavano il ’rito di benvenuto’: un pestaggio da parte degli altri ragazzi. Le guardie sapevano quello che succedeva, ma si voltavano dall’altra parte. Per loro l’importante era mantenere l’ordine, con ogni mezzo. Si viveva in un clima di violenza continua". Marco (nome di fantasia) ha trascorso una parentesi della sua vita nel carcere minorile al centro dell’inchiesta che ha portato all’arresto di 13 agenti della polizia penitenziaria.
Quando è entrato al Beccaria?
"Era il 2019, avevo 17 anni. Prima mi trovavo in una comunità nella Bergamasca, in custodia cautelare per rapine, estorsioni, furti e spaccio. Reati commessi per la droga. Sono scappato dalla comunità e quando mi hanno ripreso la misura è stata aggravata. Così sono finito al Beccaria".
Come ha vissuto l’ingresso nel carcere?
"Il primo giorno c’è stato il rito di benvenuto. Il ’capo’ della sezione dove mi trovavo, in questo caso un detenuto originario del sud Italia, è entrato nella mia cella con un altro, mentre un terzo faceva da palo. Hanno iniziato a interrogarmi e prendermi le misure, poi sono partiti calci e pugni. Nessuno è intervenuto. Volevano far capire da subito chi comanda e quali sono le regole".
In che cosa consistono le regole?
"Farsi gli affari propri e ubbidire ai capi. I più deboli, ragazzini di 14 o 15 anni, erano totalmente sottomessi. Chi riceveva soldi dai genitori, per il cibo o le sigarette, doveva consegnare la metà ai capi. Un’estorsione continua. Ricordo un ragazzo che stava bene economicamente, aveva abiti firmati ed è finito in mutande".
Ha mai subito violenze da parte della polizia penitenziaria?
"Io no, ma sono rimasto al Beccaria per un periodo breve. Non mi sono stupito, però, quando ho saputo dell’inchiesta. L’intero sistema, al Beccaria, è basato sulla sopraffazione, considerata la normalità. Quando avvenivano violenze tra di noi le guardie lasciavano correre, per evitare casini. Se qualcuno ne parlava cercavano sempre di sdrammatizzare. Da parte loro c’era anche un certo razzismo verso gli stranieri. C’erano ragazzi che non parlavano neanche una parola di italiano. Lì dentro erano finiti. Ricordo un detenuto romeno che era un gigante con la testa di un bambino. Dava fastidio ai capi e ci hanno costretto a creare disordini, perché venisse trasferito altrove".
Che rapporto aveva con le guardie?
"Mi hanno dato subito un consiglio: ’se vuoi uscire non farti notare, fatti gli affari tuoi’. Io, invece, ho violato quelle regole non scritte: ho deciso di presentare al direttore dell’epoca una denuncia, con nomi e cognomi dei detenuti che vessavano gli altri".
Perché lo ha fatto?
"Capivo che il sistema non andava bene e non volevo abbassare la testa. Sentivo il bisogno di provare a cambiare qualcosa, per chi sarebbe arrivato dopo".
Ci sono state conseguenze?
"Si è sparsa la voce che avevo parlato e, per evitare ritorsioni, mi hanno isolato. Gli altri mi sputavano addosso, mi lanciavano stracci bagnati. Non so, però, se dopo la mia denuncia è stato fatto qualcosa. Poco dopo sono uscito e, grazie all’aiuto di un assistente sociale, sono entrato nella comunità Casa del giovane di Pavia, dove sono stato accolto. Arrivando dal Beccaria mi sembrava di essere in paradiso. Sono ripartito da zero. Adesso ho un lavoro e una vita diversa, voglio dimenticare questo brutto capitolo".
Qual è la sua idea del carcere?
"Che andrebbe chiuso, il sistema va cambiato. Non si possono mettere nello stesso spazio 14enni, ancora bambini, e detenuti già maggiorenni. Persone con problemi di droga e con disagi psichici, senza alcun controllo".