Violenza sulle donne, trent’anni persi "Le leggi cambiano e l’orrore resta"

Dal delitto di Monia Del Pero nel 1989 all’aggressione di Beatrice Fraschini nel 2019: parola a vittime e familiari

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di Andrea Gianni

e Arnaldo Liguori

Il ricordo di Beatrice Fraschini torna al giugno 2019, a quei quattro giorni da incubo in un appartamento in via Biella a Milano, quartiere Barona. Segregata in casa e picchiata dal fidanzato, il “guru del corallo” Giacomo Oldrati, chiamato così perché in passato drogava le vittime con una sostanza ricavata dai funghi del corallo. "Si era fissato che lo avevo tradito – racconta – a un certo punto mi ha spogliata e messa nella vasca da bagno con l’acqua fredda per farmi confessare. Ha provato ad annegarmi e, siccome reagivo, continuava con pugni e calci alla testa". Beatrice ha trovato il coraggio di scavalcare il balcone al secondo piano. È riuscita a raggiungere la strada e si è rifugiata in un panificio, chiedendo aiuto. Monia Del Pero, invece, non è riuscita a salvarsi. È stata ammazzata nel 1989 dal fidanzato, Simone Scotuzzi, che dopo aver scontato sei anni di carcere ora è in libertà, ha una moglie e dei figli. Aveva solo 19 anni. "Monia era una bambolina – ricorda la madre, Gigliola Bono – pesava 40 chili, era alta 1,50". Due episodi separati da trent’anni durante i quali "non è cambiato nulla": le donne, nonostante leggi e campagne di sensibilizzazione, continuano a essere uccise e maltrattate. Resta il dolore dei familiari che lo scorrere del tempo non attenua, rabbia e senso di ingiustizia. Foto sbiadite e oggetti che ricordano vite cancellate per gelosia, ossessioni, violenza brutale, incapacità di accettare la fine di una relazione.

"Siamo abbandonati dallo Stato", spiega Gigliola, che dal 2006 ha intrapreso una battaglia legale contro lo Stato. La causa di questa madre che lotta a nome di tutti i parenti alle prese con un dramma come il suo è rimbalzata, però, da un Tribunale all’altro. Negli ultimi trent’anni, secondo dati dell’Istat e della polizia di Stato, il numero di uomini vittime di omicidio volontario è crollato (da 4,0 a 0,6 ogni 100.000 abitanti). Invece, il numero di donne uccise è diminuito a ritmi molto lenti (da 0,6 a 0,4), fino a stabilizzarsi dal 2014. Nell’ultimo anno è leggermente aumentato. E a pagare il prezzo più alto sono anche i figli. Giusy Ghilardi sta crescendo i due nipoti, rimasti soli dopo che la mamma, Daniela Bani, è stata ammazzata dal marito, Mootaz Chaambi, a Palazzolo Sull’Oglio il 20 settembre 2014. "Il più grande era in casa quando mia figlia è stata uccisa – racconta – adesso ha 15 anni ed è un ragazzino fragile, si porterà sulle spalle questo peso per tutta la vita". Le trentatré pagine di autopsia sono un racconto dell’orrore.

"Daniela si è difesa fino all’ultimo – sottolinea Giusy – aveva le mani tagliate. Ha fatto una fine che non riesco neanche a descrivere. Noi siamo stati lasciati soli, quell’uomo è scappato in Tunisia ed è stato arrestato tre anni fa. Non sappiamo più nulla, non sappiamo neanche se è ancora in carcere. Io ho due minorenni da tutelare". La sfida, per il futuro, è invertire la rotta. "La circostanza per cui le donne sono oggetto di violenza è connaturata all’essenza umana, alla sua malvagità", sostiene l’avvocato penalista Alessandro Continiello. "Da questo presupposto non si scappa. Tuttavia, si può fare prevenzione sia sul fronte legislativo, introducendo nuovi reati e inasprendo le pene, sia su quello dell’educazione, a partire dalle scuole".

Nel 2019 è stato approvato il cosiddetto Codice Rosso, cioè un insieme di norme a tutela delle donne che subiscono violenze, atti persecutori e maltrattamenti. La legge ha creato una corsia preferenziale per denunciare i casi di violenza. Inoltre, ha introdotto alcuni nuovi reati, come il revenge porn, e ne ha inasprito o esteso altri. Benché abbia rappresentato un passo avanti, il Codice Rosso ha diversi limiti. Alcune Procure hanno segnalato che a causa dell’altissimo numero di segnalazioni che arrivano ogni giorno, spesso è difficile concentrarsi sui casi più gravi. Servirebbero, insomma, altre risorse. Per di più, non sempre le misure cautelari – come il divieto di avvicinamento – sono sufficienti a proteggere le vittime, che in alcuni casi sono costrette a nascondersi nelle case rifugio. La difficoltà nel proteggere le donne si riflette nei dati. La stragrande maggioranza degli stupri e delle violenze viene commessa da persone che si conoscono. Stessa cosa vale per i femminicidi. Il 92 per cento delle donne uccise nel 2020 conosceva il suo assassino: nel 58 per cento dei casi era il partner o l’ex, nel 25 per cento un altro parente, nel 9 per cento un altro conoscente. Questa dinamica è importante per capire la difficoltà nella denuncia e il fatto che non esiste "un tempo giusto" per denunciare (il limite in Italia è fissato a 12 mesi da quando la violenza è stata commessa).

Tra l’altro, questa natura "familiare" e "parentale" dei femminicidi si amplifica ogni anno che passa. Nel 2005 gli omicidi commessi da sconosciuti erano il 34 per cento, oggi sono meno dell’8 per cento. È in atto, insomma, un cambiamento storico e culturale che richiede interventi soprattutto nei contesti familiari. La prevenzione sulla strada, benché importante, è efficace solo fino a un certo punto. "Il primo obiettivo è riuscire a dare un aiuto economico o un lavoro a queste donne", afferma Paola Radaelli, presidente dell’Unione Nazionale Vittime (Unavi), che ha portato avanti una battaglia per i risarcimenti a favore delle vittime di reati violenti. "Le donne spesso vengono emarginate dopo aver subito violenze. Una donna indipendente, soprattutto dall’ambito familiare, non viene sottomessa". Ma questo non basta, perché "i figli sono le vittime collaterali delle violenze", spiega il penalista Continiello. Pertanto, "qualora ci fossero delle avvisaglie, è importante che le figure sentinella, come le maestre o i pediatri, possano intervenire e segnalare i fatti". Il primo passo non è la denuncia, ma cercare un aiuto. "È fondamentale – conclude Radaelli – che le donne contattino associazioni come la nostra o i centri antiviolenza. Attraverso di noi, possono essere supportate da psicologi e avvocati. Ma finché non chiedono aiuto, purtroppo, non possiamo fare nulla".

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