SIMONA BALLATORE
Cronaca

Violenza di genere in numeri, oltre 41.400 casi di stalking all’anno: “È come se si spegnesse una città come Rozzano”

Emma Zavarrone, professoressa di Statiscia sociale alla Iulm: “Per prevenire bisogna misurare il fenomeno in modo completo. La spettacolarizzazione dei femminicidi è controproducente: fa da amplificatore”

Una manifestazione studentesca contro la violenza di genere a Milano

Una manifestazione studentesca contro la violenza di genere a Milano

Rozzano, Riccione, Desio, Imperia. Cos’hanno in comune tra loro? 41.400 abitanti circa. E sono 41.400 gli omicidi, i maltrattamenti, i casi di stalking denunciati in un anno che riguardano persone dai 13 ai 65 anni. Se non si fa prevenzione è come se ogni anno si spegnesse una di queste cittadine”. A inquadrare l’emergenza è Emma Zavarrone, professoressa di Statistica sociale della Iulm e autrice del libro Data Science e Violenza di genere.

Partiamo dai dati?

“Sì, perché serve una cultura del dato applicato al tema della violenza di genere. Va chiamata così: non è “solo“ violenza sulle donne, anche se i casi che riguardano il genere femminile sono più frequenti, ma è il tentativo di un genere di predominare sull’altro, riguarda tutti. Primo problema: non ci sono dati aggiornati nella loro complessità e disponibili a livello di singole realtà, ci sono fonti diverse che rilevano dati in modo non omogeneo e frammentario, bachi, tempi di produzione lunghi che impediscono confronti tra i diversi anni. Non si possono proporre linee di intervento efficaci nel 2025 su dati che fotografano parzialmente la situazione del 2023 o in alcuni casi al 2018. Non si può basare una prevenzione solo sulle denunce, ovvero la punta dell’iceberg: molto è il sommerso, su quello bisogna operare”.

Si fa così fatica a misurare il fenomeno in tempi reali?

“È come se vivessimo in due pianeti: da una parte abbiamo dati in tempo reale che ci dicono cosa mangiamo, cosa compriamo, ci classificano e in parte ci condizionano. Dall’altra dati in tempo differito. Nella società che conosce in diretta tutto di te, per le profilazioni di marketing, perché non si riesce ad applicare la stessa capillarità e tempestività sul tema della raccolta dati per conoscere e far prevenzione sulla violenza di genere, manifestazione ultima del divario di genere?”

Cosa sfugge?

“Burocrazia. Si parla di dati sociali che derivano da strutture pubbliche per cui ci si scontra con un apparato che nella sua progettazione non prevedeva queste esigenze. Serve un ponte, un sistema per colmare l’abisso, la distanza tra norme e messa in opera: l’Italia ha rinnovato l’adesione alla convenzione di Istanbul e promulgato la legge n.53/2022 ma non riesce a soddisfare le richieste quantitative derivanti. Una delle motivazioni è il disallineamento con quanto sostenuto dal garante della privacy, le filiere di produzione dei dati restano bloccate. Segno che qualcosa non funziona. Come il tentativo di spostare il focus sulla prevenzione nelle scuole superiori ad opera delle direttive ministeriali (2023) che le relegano solo attività extracurricolari limitate, prive di una strategia organica e di strumenti per misurare competenze e risultati”.

Al di là dei casi di cronaca, che abbiamo letto anche questa estate, cosa ci dicono gli ultimi dati su Milano e Lombardia?

“Nel 2023 la rete antiviolenza Milano ha assistito 2.471 donne, con un aumento del 15% rispetto all’anno precedente. I dati Istat del 2024 ci dicono che sono stati 17.631 i casi di violenze di genere denunciati, di questi 2.969 in Lombardia; quindi il 16,83% quasi il 17% delle violenze denunciate accadono qui. La Lombardia “pesa” nelle statistiche sulle violenze denunciate quanto pesa in termini di popolazione adulta e adolescente rispetto all’Italia.

Che fare?

“Se il peso delle denunce segue il peso della popolazione, le politiche di prevenzione e protezione non possono concentrarsi solo sulle aree “ad alta incidenza”, ma vanno pensate come interventi capillari su tutto il territorio nazionale. Al contempo la Lombardia, con la sua popolazione numerosa, resta un nodo centrale: anche una riduzione piccola in termini percentuali si tradurrebbe in un numero assoluto di vittime evitato molto rilevante”.

Si parla molto di violenza di genere, ma i dati non cambiano. Cosa non funziona?

“Da una parte la spettacolarizzazione dei femminicidi non aiuta a contenere il fenomeno: genera un circuito vizioso che la alimenta. Si trasformano tutti in psicologi, criminologi, ma per parlare di violenza di genere in modo costruttivo bisogna sapere leggere i dati. Serve una comunicazione meno superficiale, che si soffermi sull’importanza delle parole ed è necessario un approccio multidisciplinare, che analizzi il fenomeno nella complessità”.

In che modo?

“Partiamo dalla storia. Perché avvengono ancora violenze di genere? Perché si respira una cultura ancora patriarcale. Basta mettere in fila le date: 1970 diritto al divorzio, 1979 all’aborto, 1981 abolizione del delitto d’onore in Italia e 2013 legge sul femminicidio. Quanto si è dovuto aspettare per prendere coscienza del fatto che la donna non è un oggetto di proprietà? Ci sono diversi ingredienti per arrivare a questa situazione ma sicuramente un inquadramento storico, anche in relazione agli altri Paesi europei, è necessario. Siamo stati anche tra gli ultimi a riconoscere il diritto di voto alle donne”.

Questo si riflette anche nei divari di genere?

“Sì, purtroppo il nostro Paese è ancora caratterizzato da tanti stereotipi sulla donna come emerso dai dati Istat pubblicati a fine luglio ma che si riferiscono al 2023, nella fatica delle donne ad accedere a un certo tipo di studi, nella disparità salariale che è ancora al 30%, nel soffitto di cristallo nelle università. Nella nostra analisi uniamo studi storici, giuridici, economici, psicologici e sociali e lo studio del linguaggio: bisogna avere un approccio multidisciplinare e onnicomprensivo, perché il problema è endemico”.