Milano, 5 febbraio 2024 – La somma massima complessiva che Uber Eats potrebbe trovarsi a dover versare, in caso di mancato accordo, è da capogiro: 52.955.640 euro, secondo i calcoli della Nidil-Cgil. Nove volte il trattamento massimo mensile netto di integrazione salariale Inps per il numero lavoratori licenziati, in questo caso circa quattromila rider lasciati a casa la scorsa estate con una email che comunicava la chiusura dell’account quando la piattaforma delle consegne a domicilio ha deciso di abbandonare l’Italia per concentrarsi su mercati più remunerativi. Cifre che potrebbero essere riviste al ribasso e limate in una trattativa per chiudere il contenzioso, per ora solo sulla carta.
La piattaforma statunitense, infatti, non avrebbe ancora versato nulla e non ha rispettato la sentenza pilota del Tribunale del Lavoro di Milano che lo scorso settembre aveva ordinato alla società di "avviare con le organizzazioni sindacali ricorrenti le procedure e il confronto previsto in caso di cessazione di attività", dichiarando illegittimo il licenziamento dei rider e considerandoli titolari degli stessi diritti di lavoratori subordinati nonostante fossero inquadrati come autonomi. Per tagliare personale in caso di cessazione dell’attività, quindi, l’azienda non può cavarsela con una semplice disconnessione dell’account. Una stangata seguita, a ottobre, da un’altra sentenza sfavorevole a Deliveroo e Uber, che si sono viste respingere i ricorsi contro l’Inps sul nodo dei contributi.
Da allora i sindacati stanno aspettando la Pec con la convocazione di un incontro, i rider sono stati formalmente reintegrati ma non hanno un datore di lavoro perché Uber Eats non opera più in Italia, sono senza sussidi e ovviamente senza stipendio. Alcuni hanno cambiato impiego o sono andati all’estero, altri pedalano per le principali piattaforme rimaste sul mercato: Glovo, Deliveroo o Just Eat. Intanto l’azienda ha presentato ricorso in appello contro la sentenza di primo grado, e nei giorni scorsi è stata celebrata la prima udienza interlocutoria a Milano.
"Per noi sindacalisti è una situazione anomala, complessa e senza precedenti – spiega Andrea Bacchin, della Nidil-Cgil di Milano –. Uber Eats deve rispettare la sentenza del Tribunale e convocarci, non può fare finta di niente. È anche una questione di rispetto per la legge italiana e per i lavoratori che hanno avuto fiducia nella giustizia e hanno ottenuto una storica sentenza per il mondo delle piattaforme".
Il giudice Luigi Pazienza, accogliendo il ricorso della Cgil, aveva evidenziato infatti che "una normativa a tutela del tessuto occupazionale deve essere applicata anche ai rapporti di lavoro cosiddetti eterodiretti", come i rider al centro del ricorso. Facendo la premessa che "l’iniziativa economica in Italia è assolutamente libera", viene messo nero su bianco che "se una società di grosse dimensioni decide di andare via dall’Italia e di mandare a casa migliaia di lavoratori" non può farlo senza seguire quelle procedure previste dalla legge per ridurre l’impatto di una chiusura o di una delocalizzazione.
Per chiedere il rispetto della sentenza la Cgil è tornata a rivolgersi al Tribunale presentando una class action, ma non è l’unico fronte aperto. Pendono infatti una serie di ricorsi individuali avanzati, autonomamente o con l’appoggio dei sindacati, da rider lasciati a casa. Ricorsi che verranno discussi in queste settimane. Una matassa ingarbugliata – con un superlavoro per giudici e avvocati – che potrebbe iniziare a districarsi con una trattativa sindacale che potrebbe sfociare in un accordo in grado di portare i primi benefici concreti per i rider. Il tempo corre, però, e quel dialogo con i sindacati ordinato dal Tribunale non è stato ancora avviato.