Milano, 4 settembre 2014 - Siriano, classe 1967, lavori saltuari nei cantieri edili di Cologno Monzese. La vita in chiaro di S.B., che da Cologno va e viene dalla Siria, là dove - questa la doppia vita - capeggia un gruppo di ribelli. Là dove è ripreso nel filmato dell’esecuzione, da lui diretta pistola in pugno, di soldati regolari dell’esercito di Assad. Il filmato, persino mandato dai telegiornali nazionali a fine agosto e sull’onda della decapitazione del giornalista statunitense James Foley, fa fare un salto sulla sedia a investigatori della Procura di Milano, a uomini della Digos, ai magistrati inquirenti. Le immagini sono una parte di quelle agli atti di un’indagine, che viene così rivelata, delicata sotto il profilo giuridico, e che sarebbe dovuta rimanere segreta sotto il titolo di reato di terrorismo internazionale: fatta di minuziosi ascolti, del cauto monitoraggio di una cellula di cittadini siriani tutti insediati a Cologno Monzese. Immagini, quelle nel fascicolo processuale, che individuano S.B. in diverse azioni cruente, in Siria, sempre perfettamente riconoscibile, e in tempi diversi, testimoniati dalla ricrescita di barba e capelli.
Dall’11 settembre 2001 a oggi, dall’attacco all’America al declino delle inchieste sul jiadismo che cessa di essere emergenza. Dagli anni in cui la Procura di Milano e la Digos scrivono migliaia di pagine di atti e spediscono a processo cellule salafite e qaediste - marocchini, algerini, tunisini - attive in Lombardia: fanno da base logistica di mujaeddin, parlano, progettano, fantasticano attentati, poi passano al più efficace reclutamento di combattenti e kamikaze da inviare nelle zone di guerra come l’Iraq. Ma poi l’emergenza ritorna, cambia nome, da Al Qaeda a Isis, segna la radicalizzazione, ancora, di frange estremiste integraliste. E questa nuova inchiesta (sottotraccia, fino all’emersione inaspettata d’agosto, per circa un anno) coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Grazia Pradella, la rivela.
La cellula sotto indagine, che va e viene da Cologno e la Siria, che qui si divide fra il lavoro nei cantieri, nelle cooperative di servizi, nelle botteghe di manovali, che qui parla, traffica, organizza, finanzia, in Siria firma azioni di guerra, firma esecuzioni. Poi lascia il kalashnikov, e torna al lavoro e al tran tran di Cologno. Quindi, alla spicciolata, riparte: per una nuova missione, per un’altra azione di guerra. Loro, i siriani, si chiamano ribelli. Hanno fra i 30 e i 45 anni, sono tutti regolari sul suolo nazionale italiano, e quando ancora stavano in Italia, erano trasparenti. Loro, fatte salve valutazioni giuridiche diverse che hanno infiammato in passato il palazzo di giustizia milanese fra terrorismo e guerriglia, sono indagati in nove per terrorismo internazionale, 270 bis, con tutti i reati a contorno del finanziamento, del reclutamento di altri combattenti, minacce, e l’aggravante dell’uso delle armi. E, nel caso di S.B., la cui faccia è così evidente nel video mandato in onda, anche omicidio di militari di un esercito regolare. Speranze, per l’inchiesta improvvisamente rivelata in agosto, di intercettarli di nuovo e assicurarli a un processo che vagli le sottigliezze giuridiche fra terroristi e guerriglieri? Poche. I nove preferiscono i rischi del deserto siriano e le contro-crudeltà di Assad a un noioso processo a Milano.
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