Strage di via Palestro, il figlio del vigile ucciso: "Noi lasciati soli"

Matteo Ferrari ha ereditato la passione per la musica dall’agente vittima di Cosa Nostra: difficoltà e poche tutele

Matteo Ferrari

Matteo Ferrari

Milano, 16 settembre 2018 - Un organo elettronico che resiste allo scorrere del tempo, testimone delle traversie di una famiglia sconvolta dalla bomba esplosa in via Palestro il 27 luglio del 1993. Matteo Ferrari ha ereditato dal padre Alessandro, ucciso all’età di 30 anni, quando lui aveva pochi mesi di vita, la passione per la musica. Ha imparato a suonare lo strumento a tastiera che apparteneva al genitore, rimasto da allora nello stesso posto, nell’appartamento milanese dove l’agente della polizia locale Alessandro Ferrari, una delle cinque vittime dell’attentato compiuto da Cosa Nostra, viveva con la moglie e il suo unico figlio. Matteo, 26 anni, si è da poco laureato in Ingegneria edile al Politecnico. E racconta il suo viaggio nella memoria, ricordi personali di una strage mafiosa che 25 anni dopo «rischia di essere dimenticata».

Suo padre è stato ucciso in servizio. Fu lui a lanciare l’allarme dopo aver notato la Fiat Uno parcheggiata di fronte al Pac, da cui fuoriusciva il fumo, che poi saltò in aria. Come ha acquisito consapevolezza, nel corso degli anni, di quello che è accaduto?

«L’ho saputo da mia madre, dai miei familiari, a piccoli passi. Quando ero un bambino mi chiedevo perché, a differenza dei miei coetanei, non avessi un padre. Ho iniziato a fare delle domande, e ho ottenuto le risposte».

Che idea si è fatto della personalità di suo padre?

«Era una persona onesta, che amava la sua famiglia e il suo lavoro. La sua fine è la sintesi della sua vita: è morto mentre faceva il suo dovere. Nella nostra casa a Milano abbiamo conservato le sue foto e il suo organo elettronico. Da lui ho ereditato la passione per la musica».

Ha imparato a suonare?

«Ho iniziato a suonare il suo organo spontaneamente, forse per sentirmi più vicino a lui. Si tratta di uno strumento delicato, che si rompe facilmente. Nonostante questo, stranamente, resiste intatto da tanti anni. Mio padre, originario di Gandino, nella Bergamasca, era direttore del coro dei ragazzi nella parrocchia Santissimo Redentore di Milano. Io spesso vado a suonare nella stessa chiesa, in occasione di matrimoni o altre celebrazioni».

Non ha mai pensato di entrare nelle forze dell’ordine, di seguire la sua strada?

«Ho molta stima per le forze dell’ordine, soprattutto per la polizia locale e i vigili del fuoco, ma non ho mai preso in considerazione questa ipotesi. Ad aprile mi sono laureato in Ingegneria edile, poi sono partito per gli Stati Uniti per imparare l’inglese. Adesso sto cercando lavoro a Milano, vorrei rimanere nella mia città. Mi sto informando anche su eventuali opportunità di collocamento in quanto figlio di una vittima nell’adempimento del proprio dovere, dovrei appartenere a una categoria protetta».

La sua famiglia si è sentita tutelata dallo Stato?

«Mia madre mi ha raccontato che, soprattutto nei primi anni, ha vissuto non poche difficoltà economiche, ed è stata aiutata dai parenti dopo che ha deciso di rimanere a casa dal lavoro per occuparsi di me. Anche i colleghi di mio padre ci sono stati vicini. Ci sono le celebrazioni ufficiali e, qualche anno fa, mi è capitato di incontrare a Roma l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oltre a quello, però, manca qualcosa. Manca una tutela vera per le vittime, perché la nostra famiglia è stata lasciata sola».

Siete in contatto con i parenti delle altre vittime?

«Ci vediamo alle celebrazioni ufficiali ma i contatti non sono molto assidui, anche perché sono passati tanti anni e tante cose sono cambiate».

Sono stati condannati esecutori e mandanti, mentre l’ultimo processo si è concluso con l’assoluzione del presunto basista Filippo Marcello Tutino. Pensa che sia emersa tutta la verità sulla strage?

«All’epoca ero troppo piccolo per assistere ai processi più importanti, nei quali la nostra famiglia si è fatta rappresentare da un nostro parente avvocato, ma mi sono informato sulla mafia, su quell’epoca drammatica. A Milano non sono più avvenuti attentati così eclatanti, ma di certo la mafia non è sconfitta. Si è evoluta, controlla attività economiche, si arricchisce con il traffico di droga».

Pensate di aver ottenuto giustizia?

«Ci sono state le condanne, ma è difficile stabilire che cos’è la giustizia. Sono state uccise delle persone, e quello che è successo non si cancellerà mai. Io vorrei che dal male, dalla morte di mio padre, nasca qualcosa di positivo, un monito per il futuro, perché altre famiglie non debbano più soffrire».

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