Milano – Nel prossimo anno scolastico nove istituti comprensivi di tre province lombarde (Milano, Bergamo e Brescia, oltre ad alcuni istituti di Siena, in Toscana) apriranno le porte di alcune classi ad una famiglia di robot. Proprio così: una famiglia di robot. I più piccoli saranno alti 20 centimetri, i più grandi raggiungeranno i 50. Nessuno di questi è stato progettato per aiutare gli alunni ad avvicinarsi ai linguaggi o alle tecniche di programmazione, in nessun caso si tratta di acquisire questa o quella competenza specifica. Tutti avranno, invece, uno scopo decisamente diverso da quello per il quale si è soliti ricorrere ai robot nelle scuole: fare in modo che gli alunni con disabilità possano giocare insieme ai compagni e viceversa. Incoraggiare il gioco di gruppo. Le classi nelle quali saranno introdotti i robot sono quelle della scuola dell’infanzia e le prime elementari. Il progetto “Frob“ (Family of robots for children with disabilities) è rivolto ai bambini tra i 4 e gli 8 anni ed è curato e supervisionato da tre università: quella di Bergamo, quella di Siena e il Politecnico di Milano, che ha progettato i robot nel proprio laboratorio di intelligenza artificiale: l’AirLab.
Perché il ricorso ai robot, anzi ad una famiglia di robot? “Innanzitutto perché ci sono pochissimi giocattoli progettati tenendo conto delle specificità dei bambini con disabilità – spiega Stefano D’Ambrosio, ricercatore dell’università di Bergamo –. C’è una questione di project design". E poi perché qualunque giocattolo comune, da un semplice pallone ad un gioco di società, presuppone una o più regole che devono essere conosciute, accettate e condivise prima di poter iniziare a giocare. Invece il gioco attraverso questi robot accade diversamente. Accade e basta. Le regole si scoprono via via, nel mentre, nel “qui e ora“. Si scoprono giocando. "Con questi robot, le regole si costruiscono insieme" sottolinea Elisabetta Prina, a sua volta ricercatrice dell’università di Bergamo. "Si parte tutti alla pari, tutti con lo stesso livello di conoscenza e questo significa eliminare barriere all’ingresso", nota Andrea Bonarini, docente e responsabile dell’AirLab del Politecnico.
Anzi, ad essere precisi quello che i bambini scoprono giocando è il nesso causa-effetto, azione-reazione. "Questi robot – fa sapere Bonarini – sono componibili: l’alunno può aggiungervi pezzi, esattamente come con i Lego. E ogni volta che si aggiunge un pezzo, il robot reagisce, ogni aggiunta implica il manifestarsi di un evento diverso".
Ecco un’altra differenza con un giocattolo tradizionale: i robot non sono passivi ma studiati per interagire. Il gioco, allora, non è mai lo stesso, cambia. E cambia per tutti nello stesso momento sollecitando ciascuno a trovare, insieme agli altri partecipanti, una reazione al nuovo accadimento. "Durante un test – racconta Bonarini – è successo che sia stata un’alunna con sindrome di Down la prima a trovare la chiave per interagire col robot, poi tutti i compagni l’hanno seguita, l’hanno imitata. In quel momento si è creata una dinamica di gruppo".
Rieccolo l’obiettivo: giocare insieme, spontaneamente e alla pari. "Il gioco per il gioco, il gioco fine a se stesso" sintetizza Prina. Nessuna competenza precisa da trasmettere ai bambini, come detto. E non c’è neppure un percorso auspicato o auspicabile, previsto o prevedibile lungo il quale si debba sviluppare il gioco. Per dirla ancora con le parole di Bonarini: "Non ci aspettiamo esiti precisi, non è terapia". L’unico obiettivo è eliminare le barriere che impediscono di giocare con gli altri.
Perché, però, queste finalità devono essere perseguite attraverso i robot e non attraverso insegnanti o educatori? "Il rapporto col robot è diverso rispetto a quello con una persona – spiega Bonarini –. È un rapporto neutro, non condizionato dalla percezione che il bambino ha dell’adulto. Inoltre i robot, come i giocattoli, stimolano la curiosità degli alunni e, aspetto non secondario, tollerano tutto, si fanno fare tutto: in un’occasione, di nuovo durante un test sperimentale, un alunno nello spettro autistico si è approcciato ad uno dei nostri robot travolgendolo, facendolo cadere a terra. Il robot ha pianto e a quel punto l’alunno ha cercato un fazzoletto e gliel’ha offerto. Questo è solo un esempio di come i robot amplino le possibilità delle esperienze che il bambino può fare nel gioco: nulla di tutto questo era stato previsto a priori e, banalmente, non avremmo potuto permettere che fosse travolto un altro alunno o un docente".
Tra le scuole che hanno aderito al progetto Frob c’è anche l’Istituto comprensivo Talpino di Nembro, in provincia di Bergamo. "Abbiamo aderito perché nelle classi prime i bambini spesso fanno fatica a giocare insieme, ad accettare il gioco dell’altro. Attraverso questo progetto anche noi docenti faremo un lavoro su noi stessi: facciamo corsi di didattica, ma non facciamo mai corsi sul gioco – spiega Francesca Volpi, insegnante di sostegno –. L’obiettivo è creare una comunità di insegnanti che condividano buone pratiche sul gioco". "Il gioco è fondamentale perché crea un clima sereno ed un clima sereno aiuta non solo l’apprendimento ma l’accettazione di ogni diversità", sottolinea Alessia Acerbis, responsabile di plesso. "In questo progetto abbiamo ravvisato un’unione di menti, idee e competenze che consente di fare un passo in avanti sulla strada della costruzione di una comunità e fanno sì che la scuola sia quello che deve essere: un contenitore di senso" conclude Fulvia Marchi, docente e referente Dsa.