Milano, 12 dicembre 2023 – Va detto subito, è l’antitesi della rockstar. Giacca gialla, camicia multicolor, sciarpa arancio. Grandi sorrisi. Disponibile, non si sottrae ai selfie. "Ho perso e mi sono perso, ma per ora sto volando alto". Vulnerabile, fragile, ma ottimista. Che poi la vulnerabilità è anche forza – "è il mio superpotere" – un potente strumento di sopravvivenza, in un mondo "così complesso".
Michael Stipe, l’ex frontman dei R.E.M, uno che ha guidato una band per 31 anni vendendo 90 milioni di dischi, sciogliendosi nel 2011, all’apice del successo, si presenta così al Museo del ’900, in occasione della sua prima mostra pubblica al mondo. E ha scelto la sede di Ica, Istituto contemporaneo per le arti, perché da sempre sensibile alle istituzioni culturali indipendenti. "Sa veramente entrare in sintonia con le persone, così, davanti a un caffè, quattro anni fa è nata l’idea di questa esposizione", racconta il curatore Alberto Salvadori.
E se Stipe sta lavorando a un nuovo album, il primo da solista, che uscirà nel 2024 (e lo conferma), a Milano ci tiene a parlare di arte (visiva), un percorso che lui porta avanti da sempre, da quando ragazzino e studente d’arte comincia anche ad appassionarsi di fotografia, a tal punto da pubblicare già negli anni ‘90 ‘Two times intro’, un libro che documentava un tour con l’amica Patti Smith. "L’adrenalina che ho provato allestendo questa mostra è la stessa dei concerti – assicura Michael – Sto realizzando un sogno che inseguivo da anni".
Il titolo è già un manifesto programmatico: ‘I have lost and I have been lost but for now I’m flyin high’ (a cura di Alberto Salvadori, da oggi al 16 marzo). Tutto in mostra ruota attorno al tema della vulnerabilità, "non si tratta di una retrospettiva del lavoro di Stipe, quanto di una creazione apposita e nuova", viene sottolineato.
Negli spazi post industriali, scenario perfetto, si dipana l’interpretazione concettuale dell’arte contemporanea per Stipe: il fulcro è nel ritratto (è in uscita con Damiani Books ‘Even the birds gave pause’),interpretato attraverso un ventaglio di linguaggi espressivi che spaziano dalle fotografie (in bianco e nero) alle copertine di libri, dalle ceramiche alle sculture in gesso e inchiostro, plastica e cemento, fino alle opere audio.
Con una serie di omaggi ai suoi cari, la madre e le due sorelle, gli amici di lunga data, da Bono a Lou Reed e i registi Tom Gilroy e Jim McKay. E poi Brâncusi e Marisa Merz, con l’uso particolare di alcune delle teste realizzate in gesso, "bellissime nella loro imperfezione", suggerisce l’artista.
A partire dalla dimensione caotica che connota la contemporaneità, la vulnerabilità diventa per Stipe da "accogliere", custodire e impiegare come strumento per trovare nuove strade da intraprendere. Una qualità, non certo un sentimento di cui vergognarsi. Concetto che emerge dalla lettura di un testo guida in voga con la new age, Desiderata di Max Ehrmann (1927), che invita il lettore a sperimentare una nuova condizione, nata dall’accettazione della propria fragilità.
Non c’è musica in mostra, ma solo un’installazione sonora con la voce di Stipe che recita, appunto, il poema di Max Ehrmann. "Volevo portare questa poesia nel 21esimo secolo. Renderla nuovamente fresca. Non ho paura di sembrare ordinario portandola, penso che in questo momento sia molto importante per le persone poter contare su cose che siano utili, è un inno di accettazione delle difficoltà dalla vita". E le canzoni? "Scriverle a volte è molto naturale, altre volte richiede molta fatica, una fatica diversa da quella dell’allestimento di questa mostra". E chiude: "Adoro l’arte e amo ciò che l’arte mi offre". E adora l’Italia (anche il cibo!). "Gli italiani rispondono emotivamente all’arte e alla musica... Qui mi sento capito".
Se vuoi iscriverti al canale WhatsApp di Qn clicca qui