FRANCESCA GRILLO
Cronaca

Omicidio di Umberto Mormile, parla il fratello. “Ora vogliamo la verità sul ruolo della Falange Armata"

Nel 1990 l’educatore nel carcere di Opera fu ucciso in un agguato nel ’90. Due pentiti sono stati condannati: fornirono armi e mezzi ai killer. "Vittoria sulle umiliazioni. C’è una pagina di storia da riscrivere"

Opera (Milano) – Sono passati 34 anni da quella telefonata che annunciando la morte di Umberto Mormile ha sconvolto la vita della sua famiglia. Anni di dolore, di rabbia, di paura. Di una battaglia che ha superato ostacoli che sembravano insormontabili: una montagna che solo la forza dei familiari, del loro comprensibile bisogno di giustizia, ha permesso di valicare. Sono trascorsi tanti anni, eppure la voce di Stefano, fratello di Umberto, si rompe ancora, tradita dall’emozione. "Questa volta, però, è un’emozione di quelle buone", sorride e non nasconde la commozione, ripercorrendo questi anni di angoscia. La notizia è la condanna a 7 anni di Vittorio Foschini e Salvatore Pace, i pentiti che parteciparono all’omicidio dell’educatore del carcere di Opera, fornendo la pistola calibro 38 e la moto Honda 600, usate dai killer Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Il comando per quell’omicidio è arrivato dalla ‘ndrangheta, dai Papalia, famiglia che ha interrato radici tossiche della criminalità organizzata portandola dalla provincia di Reggio Calabria a quella di Milano, e di Coco Trovato. Ora, con la condanna ai pentiti, si aggiunge un tassello alla ricostruzione dell’omicidio.

Stefano Mormile
Stefano Mormile

Come avete accolto la sentenza?

"Non pensavamo di provare questa forte emozione dopo 34 anni di lotte, di amarezze, anche di sconfitte, di umiliazioni. È stato un tempo difficile, complicato, solo il desiderio di giustizia, la costanza e l’aiuto di un avvocato straordinario come Fabio Repici ci ha dato la forza di andare avanti. Non ci credevo quasi più, invece con la sentenza di condanna ai collaboratori di giustizia si accende una luce nuova sulla vicenda".

Parla di anni di umiliazioni e sconfitte: a cosa si riferisce?

"Le indagini sono state riaperte dopo la richiesta di archiviazione della Dda, respinta dal gip Natalia Imarisio che ha intravisto nelle carte delle indagini un ruolo importante, non secondario, dei due collaboratori nell’omicidio. E poi ci sono stati i tentativi di infangare mio fratello".

Con le iniziali accuse di un rapporto con i boss.

"Esatto, infamanti accuse che hanno gettato fango sull’operato di Umberto, educatore che svolgeva con passione il proprio lavoro. Lo hanno ammazzato due volte: colpendolo con sei proiettili e con le calunnie. Una corruzione mai esistita per coprire quello che in realtà c’è dietro all’omicidio".

Si riferisce all’organizzazione della Falange Armata?

"Sì, è entrata prepotentemente nella vicenda dell’assassinio di mio fratello. Un gruppo che negli anni Novanta ha messo la firma sulla strage del Pilastro e della Uno Bianca, gli attentati di matrice terroristica in cui si inseriscono i servizi segreti deviati. Speriamo che nelle motivazioni di questa sentenza ci sia un riferimento proprio alla Falange Armata, chiarendo così il coinvolgimento inquietante dei servizi segreti deviati".

Perché la ‘ndrangheta ha ucciso suo fratello?

"Proprio perché aveva scoperto i rapporti tra servizi segreti deviati e i boss all’interno delle carceri. Umberto sapeva troppo e doveva essere ucciso. Come ha detto l’avvocato Repici, la sentenza di condanna ai collaboratori è un riconoscimento a Umberto come fedele rappresentante dello Stato, diventato pericoloso testimone e ostacolo delle relazioni criminali fra i boss ed esponenti del Sisde".

Cosa prova per i due pentiti condannati?

"Lo abbiamo sempre detto: non era nostro interesse accanirci nei loro confronti e siamo felici che abbiano parlato e aperto nuovi spiragli per riconsegnare la giusta memoria a Umberto. Volevamo chiarezza. Ora attendiamo le motivazioni della sentenza, per riscrivere una pagina importante di storia e giustizia".