Milano, 10 dicembre 2024 - Com'era prevedibile, lo sgombero del Leoncavallo non è andato in scena. Alle 10.30 di martedì 10 dicembre, è arrivato l'ufficiale giudiziario per notificare l'ordinanza di rilascio dell'immobile, come già fatto per 129 volte negli ultimi 19 anni, ma dopo qualche minuto è andato via con l'ennesimo rinvio.
Via Watteau era occupata da alcune centinaia di persone, che hanno risposto all'appello dei collettivi del centro sociale per "difendere" lo spazio pubblico occupato dal settembre 1994. In realtà, non era prevista la presenza delle forze dell'ordine (al netto di un monitoraggio a distanza degli agenti in borghese di Digos e commissariato Greco Turro) per eseguire lo sfratto, in attesa che su altri tavoli si trovi un'intesa per chiudere la questione.
La riapertura della trattativa
Lo storico esponente del Leonka Daniele Farina, ex consigliere comunale ed ex deputato di Rifondazione Comunista, ha chiarito il contesto della situazione: "Abbiamo alcuni mesi di tempo per trovare una soluzione. L'attore principale è il Comune, che ha dato la disponibilità”.
Il riferimento è alla possibile riapertura di una trattativa tra Palazzo Marino e famiglia Cabassi per regolarizzare il centro sociale, magari con una permuta di edifici. “È importante questa presenza perché tiene alta l'attenzione, e con l'attenzione alta si può trovare una soluzione. La sentenza ha cambiato le carte in tavola e quindi ci confrontiamo con uno scenario diverso”.
La sentenza in questione è quella della Corte d'appello del Tribunale civile di Milano, che lo scorso 9 ottobre ha condannato il Ministero dell'interno a risarcire 3 milioni di euro ai proprietari per il mancato sgombero.
La contesa legale sul Leonka
Ultima tappa di un contenzioso giudiziario su più livelli, che ha vissuto un primo snodo spartiacque nel 2003, quando in primo grado il Tribunale ha condannato l’associazione “Mamme antifasciste del Leoncavallo” al rilascio dello spazio in zona Greco.
Il 5 novembre 2004, la Corte d’Appello conferma la pronuncia, che nel 2010 diventa irrevocabile. L’11 marzo 2005, l’ufficiale giudiziario entra per la prima volta nei capannoni per consegnare l’avviso di sfratto. Ci torna pure un paio di mesi dopo, ma non può mettere in atto l’ordine di rilascio per due motivi: gli occupanti non se ne vogliono andare; e le forze dell’ordine non ci sono, nonostante una lettera inviata dai Cabassi una settimana prima per avere garanzie sulla «fruttuosità dell’esecuzione».
Le trattative fallite
I tempi si allungano. Nel frattempo, Comune e proprietà si confrontano a più riprese per arrivare a una soluzione, ma le ipotesi di regolarizzazione (permuta di un immobile in epoca Pisapia e scambio di volumetrie in epoca Sala) restano sulla carta.
A quel punto, i Cabassi fanno causa per la seconda volta, stavolta a Viminale e Presidenza del Consiglio: in primo grado perdono, ma in secondo vincono.
La condanna da 3 milioni
La Corte d’Appello – che ha escluso responsabilità di Palazzo Chigi e le ha accollate interamente al Ministero e ai suoi organi territoriali Prefettura e Questura – sentenzia che i Cabassi hanno diritto al risarcimento, richiamando pronunciamenti di Cassazione e Corte europea dei diritti dell’uomo.
A cominciare da quello che ha stabilito che “il rifiuto di assistenza della forza pubblica all’esecuzione dei provvedimenti del giudice, che sia determinato da valutazioni sull’opportunità dell’esecuzione medesima, costituisce un comportamento illecito lesivo del diritto alla prestazione e come tale generatore di responsabilità dalla parte della pubblica amministrazione".