
Una carriera inimitabile: "Una bella foto all’anno? Ne ho fatte due. E sono quelle che parlano per me. Fiero della laurea honoris causa in Storia e critica dell’Arte, per uno che non aveva voglia di studiare...".
L’appuntamento è nella sua abitazione milanese, al quarto piano di un palazzo signorile. Gianni Berengo Gardin, 94 anni, ci accoglie con grande e calorosa simpatia, nella mansarda che ospita il suo archivio. Lo cura personalmente insieme alla figlia Susanna. Sterminato archivio, "ho fatto quasi due milioni di scatti in settant’anni". E la figlia aggiunge: "Per fortuna è stato abbastanza ordinato...". "Venga", mi richiama all’attenzione Berengo Gardin, "questi oggetti li ho raccolti durante i miei numerosi viaggi", dice portandomi in un angolo della mansarda, una sorta di “wunderkammer”, con libri, oggetti raccolti nei negozi di rigattieri di tutto il mondo, e un’infinità di modellini di navi, macchine, in legno, costruiti con le sue mani. Sulla parete a destra, i modellini dei treni, e una processione di statuette, che ricordano i riti della Pasqua di Taranto. "Questa bottiglietta però me l’ha regalata la sorella di Giorgio Morandi - dice mostrandola con orgoglio -. Dipinta da lui nel 1932. Piacque molto il libro che realizzai sul fratello".
La sua vita è stata densa di incontri importanti. A Parigi ha conosciuto e frequentato grandi fotografi, Robert Doisneau, Daniel Masclet. Perfino il filosofo Jean-Paul Sartre che era appassionato di film western e che lei accompagnava al cinema. Ha scritto oltre 300 libri, fra questi il primo dedicato a Venezia, Venise des saisons, accompagnato dai testi di Giorgio Bassani e Mario Soldati; realizzato migliaia di reportage. C’è ancora un sogno da realizzare?
"Non ho paura della morte, mi scoccia lasciare tutto quanto. Vorrei che si organizzasse una mostra a Palazzo Reale, adesso che sono in vita. Potrei godermela di più! Milano è la città che mi ha adottato, qui arrivai nel 1962, lasciando senza troppi rimpianti Venezia. Inizialmente non fu facile inserirsi a Milano, Ero molto timido, non frequentavo ancora il mondo dei reporter, andavo raramente al Bar Giamaica. Ugo Mulas mi aveva fatto conoscere Mario Dondero e Uliano Lucas, che erano abbastanza noti ma mi mettevano una certa soggezione. Per Dondero avevo una venerazione, lo imitavo anche nel vestire, che bello quel suo giubbotto in pelle...".
Cominciò a collaborare con le grandi riviste, lo racconta nella sua autobiografia, In parole povere.
"Iniziai per caso. Stavo mostrando delle foto a un critico in un bar di Milano, quando alle mie spalle un signore prese a sbirciarmi... per fortuna non ho reagito, era Leo Longanesi che voleva le mie foto. Cominciò a pubblicarle sul Borghese, ma era troppo a destra per me, e glielo confessai e lui mi consigliò di andare al Mondo di Pannunzio".
Nel ’68 a Venezia durante la contestazione della Biennale, uno dei suoi scatti più noti: il poliziotto che alza il manganello contro il suo obiettivo.
"Venni rincorso da un agente, scattai alla cieca. È finita però che lui mi fratturò il pollice e io portai la foto a casa".
Fra i reportage più importanti ci sono quelli fatti con Basaglia sui manicomi italiani che è poi il libro Morire di classe... "Qui il merito va alla mia amica Carla Cerati che mi offrì di accompagnarla per ritrarre Basaglia. Le foto gli piacquero e ci mise a disposizione i contatti di altre strutture. Forse è uno dei servizi a cui sono più affezionato, non fu facile fotografare i pazienti, erano legati, sporchi. Fu sconvolgente".
Lei ama di più gli scatti in bianco e nero, perché stampare a colori la distraeva.
"Tutti i grandi fotografavano così, in bianco e nero. Mi concentro sui volti, sulle situazioni di vita quotidiana".
Qual è stato il complimento più bello che ha ricevuto nella sua lunga carriera?
"Quello di Cartier-Bresson: “a Berengo con simpatia e ammirazione”. Potevo anche morire il giorno dopo. Avere l’ammirazine di Cartier Bresson era come ricevere una medaglia d’oro. L’Oscar della fotografia l’ho preso invece in America, il Lucie Award 2008 alla carriera, un premio vinto prima di me da Henri Cartier-Bresson, Elliot Erwitt. La vede quella statuetta sul mio tavolo? È lì insieme a tutti gli altri premi, come il Leica Oskar Barnack, nel 1995, e il Leica Hall of Fame del 2017. E poi sono molto fiero della mia laurea honoris causa in Storia e Critica dell’Arte all’Università di Milano, per uno che non ha mai avuto tanta voglia di studiare è proprio una soddisfazione. Non sono bravo con le parole, sono le foto che parlano per me. Cartier Bresson diceva che un bravo fotografo fa una foto buona all’anno, io sono riuscito a farne anche due".
Aveva in mente sin da piccolo di fare il fotografo?
"Ma nemmeno per sogno, volevo fare il falegname, è stato un caso, pensi ho fatto anche il bagnino in un night svizzero su un lago. Peccato che non sapessi nuotare... sono stato fortunato in tutto".
Progetti?
"Sto preparando due libri, sulla civilta contadina, dal 1953 ad oggi, dal Nord al Sud. E l’altro è una ricca antologia di tutto il mio lavoro".Stefania Consenti