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Sebastiano Mauri si racconta: "Dopo tanto girovagare a Milano ho ritrovato le mie radici"

L’artista e scrittore confida: "La strada a cui sono più legato è via Vigevano. Vivo in uno stabile di ringhiera, dove prima c’era lo studio di mia madre. Attraverso questa via rivedo in prospettiva la mia storia, la mia vita e mi accorgo che Milano mi piace tanto" di MASSIMILIANO CHIAVARONE

ECLETTICO A sinistra, l’artista e scrittore Sebastiano Mauri si affaccia dalla sua casa di ringhiera in via Vigevano, la strada del cuore; a destra, Mauri in bici con il suo cagnolino (Newpress)

Milano, 1 novembre 2015 - «A Milano mi sento come Dorothy del “Mago di Oz” che apprezza il Kansas, cioè la sua terra di origine dopo che l’aveva lasciata». Parola dell’artista e scrittore Sebastiano Mauri.

Ha tentato come la sua eroina di allontanarsi dal posto in cui è nato?

«Ho pianificato la fuga da Milano dalle elementari. Volevo lasciare l’Italia, confrontarmi con altre prospettive».

Quali erano le sue prospettive milanesi di quando era bambino?

«La prospettiva Pontaccio. A parte l’anno e mezzo che ho trascorso con i miei genitori in Benin quando ero molto piccolo, sono cresciuto in via Pontaccio nel palazzo Crivelli».

Com’era la vita in quel periodo?

«All’insegna delle novità. La nostra casa era un porto di mare. Quando tornammo dall’Africa i miei invitarono in Italia tre persone del posto che vissero con noi per molto tempo. In casa i mobili buoni vennero messi in cantina e furono sostituiti con cuscini e stuoie. Non ricordo mai di essere stato a tavola solo noi quattro, cioè i miei, io e mio fratello Santiago. Eravano sempre molti di più. Mio padre Achille allora si occupava di produzioni tv mentre mia madre Diana è sociologa ed è di orgine argentina. La nostra casa era un luogo di incontro aperto a tutti e infatti i miei non chiudevano mai a chiave con il risultato che una volta ci rubarono ogni cosa: dalla tv all’impianto hi-fi. I miei si affrettarono a ricomprare quello che mancava e dopo un po’ ci razziarono ancora tutto».

Insomma urgeva fuggire?

«Ma no, non per questo. Era proprio la voglia di misurarmi con il nuovo. A 17 anni ho fatto un anno di liceo a Boston. A Londra, invece, ho studiato arte. Poi mi sono laureato in cinematografia a New York dove ho vissuto per 13 anni. Vivevo a Manhattan dove l’85% delle persone è di passaggio. Infatti avevo gli amici a tempo, anzi al mese. Cambiavano spesso perché andavano via. Rinunci a tante cose per stare a New York, una città piena di energia, ma anche ansiogena. Mi ha comunque dato molto».

Perché ha deciso di tornare a Milano?

«Per ritrovare le mie radici. Milano è diversa da New York, è più umana anche se è schiva. È la città in cui lavoro meglio e poi oggi è rifiorita. Ha più piste ciclabili, più verde, mostra maggiore attenzione agli stranieri e vigila sull’inquinamento dell’aria. Inoltre è uno dei centri italiani dove l’impegno per i diritti civili è concreto, non solo di facciata. Milano dà segnali di serenità».

Il suo impegno per i diritti civili è noto, ci ha anche scritto alcuni libri.

«A 5 anni avevo giurato a me stesso che non sarei stato omosessuale. Ho soffocato il mio orientamento fino ai 27, poi l’ho detto ai miei genitori. E da allora è iniziata la mia vera vita, quella di Sebastiano che ama una persona del suo stesso sesso e chiede, come tanti altri, di non essere giudicato per i suoi sentimenti perché non ledono i diritti di nessuno. È quello che scrivo nel «Giorno più felice della mia vita» (Rizzoli). La politica, purtroppo, non riesce a sintonizzarsi sull’evoluzione della società e sul percorso dei diritti umani, quindi tocca a noi cittadini scendere in piazza per ottenere quello che Paesi a noi vicini hanno riconosciuto da tempo. E Milano in questo è in prima linea».

La strada della città a cui è più legato?

«Via Vigevano. Vivo in uno stabile di ringhiera, dove prima c’era lo studio di mia madre. Attraverso questa via rivedo in prospettiva la mia storia, la mia vita e mi accorgo che Milano mi piace tanto. Ci venivo spesso da ragazzino. Allora era una casa piena di vecchietti di una Milano che non c’è più. Ora ci sono tanti studenti. Anche loro sono di passaggio. Ma non ci bado. Sento che lo spirito del posto è rimasto uguale a quello di tanto tempo fa».

di MASSIMILIANO CHIAVARONE