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Debora Villa: Milano è una madre fredda, diventa generosa solo se è sicura che lo meriti

L’attrice: ero una tamarra di Pioltello di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Debora Villa (Newpress)

Milano, 5 dicembre 2015 - «Milano è una madre fredda, a cui devi dimostrare che vali: diventa generosa quando è sicura che te lo meriti». Lo racconta l’attrice Debora Villa.

Evoca subito il rapporto materno. Era una ragazzina scapestrata?

«Una tamarra di razza di Pioltello, che ogni domenica veniva alla discoteca “Splash Down” di viale Natale Battaglia, zona Loreto. Con le amiche prendevo il pullman alle 14 per poi tornare indietro verso le 18. Erano momenti in cui mi sentivo libera. In realtà non facevamo nulla di particolare. Mi ricordo il look da zarra con gli scaldamuscoli rosa e il giubbottino».

E la scuola?

«Frequentavo l’ Istituto turistico “Pier Paolo Pasolini” all’Ortica. Qualche volta bigiavo. Una in particolare riuscii a non andare a scuola per 4 giorni di seguito. Stavo al Parco Sempione, dove ci scappava qualche canna. Forse ero depressa anche se non sapevo di esserlo».

Poi Milano l’ha aiutata di nuovo a cambiare aria?

«Sì, a 19 anni, quando trovai il primo lavoro: commessa da Fiorucci in San Babila. Era un periodo fighissimo, facevo regali a tutti, mi concessi anche la mia prima manicure, di un perlato agghiacciante ma io, invece, ero sicura di avere le mani più belle del mondo. Lavoravo molto, ma il sabato sera nessuno mi toglieva la serata al Rolling Stones con gli amici. Intanto cominciai a fare teatro con un gruppo di coetanei di Pioltello. Poi scoprii che in realtà facevamo parte di un progetto di recupero di ragazzi di strada. Ma a me è servito comunque: mi ha salvato dai week end di alcol e droga della provincia anonima».

Dunque aveva trovato la sua strada?

«Sì, anche se non ci credevo. Mio padre fu ucciso nel 1992 a Milano da alcuni criminali che volevano rapinarlo. Lo assalirono nel suo laboratorio “Vendo oro” di piazza Napoli e lo conciarono per le feste. Dovevo lavorare, non potevo dedicarmi alla recitazione. Mi impedivo persino di avere sogni. Per fortuna un mio caro amico dentista, Gianluca Tartaglia, mi propose di collaborare con lui come assistente alla poltrona».

Recitazione addio dunque?

«No, perché cominciai a frequentare il laboratorio teatrale Scaldasole annesso al centro sociale che si trovava proprio nella via omonima, al Ticinese. Era il maggio 1997. Un periodo di grande creatività. Con Ussi Alzàti, una collega attrice, formammo il “Duo di picche”. C’erano anche Gianluca De Angelis e Geppi Cucciari. Poi ci trasferimmo alla Barona».

Il suo quartiere preferito?

«Sì, praticamente misi le tende al Barrio’s, il centro sociale. Con il gruppo dello Scaldasole, a cui aggiungo Walter Leonardi e Omar Fantini, facevamo spettacoli al teatro Edi, che fa parte del comprensorio. Venivano a vederci anche 500 persone a sera. Era vero cabaret underground, che partiva da un posto dove sembrava che qualsiasi forma di creatività non potesse nascere».

Teatro e territorio in questo caso si fondono?

«Sì, perché il teatro Edi é situato in una zona periferica. La struttura esterna, chiamata l’astronave, è diventata il cuore di un quartiere che si è riscoperto vivo per l’impegno quotidiano di persone straordinarie che si occupano della gestione di quegli spazi. Milano non è solo una città monumentale, è una enorme palafitta che ha un underground attivo, creativo e reattivo. Basta saper cercare».

E lei intanto era convinta di continuare con lo spettacolo?

«Macché, mi ero data un termine: se a 28 anni non riuscivo a fare il salto di qualità avrei mollato. Avevo fatto anche il colloquio all’Esselunga per fare la cassiera, ma non fui presa. Ricordo ancora la frase storica di mia madre: “Meno male, con il talento che hai mi si stringeva il cuore” ».

E invece poi il tram è passato?

«Ci sono saltata sopra. Paolo Rossi mi prese insieme ad altri colleghi del Barrio’s per fare “Scatafascio” su Italia 1, poi lavorai ancora con lui al Piccolo in “Questa sera si recita Molière”. Paolo è un grande maestro: mi ha insegnato l’arte dell’improvvisazione e a non prendermi sul serio».

Insomma Milano l’ha un po’ strapazzata?

«Sì, ma mi ha dato la possibilità di misurarmi con me stessa. La sua freddezza mi ha spronata, mi ha fatto incazzare e ho tirato fuori la grinta. E ho capito che ero una stupida a proibirmi di sognare».

di MASSIMILIANO CHIAVARONE