
Gerardo López professore all’Università dello Utah
Milano, 19 aprile 2018 - “Educazione senza frontiere”: è il viaggio di cinque professionisti di Milano, Padova e Roma fra le scuole di Washington D.C., Salt Lake City e Detroit, per analizzare modelli e buone pratiche, confrontare metodi di integrazione a scuola. Un viaggio sponsorizzato dal Dipartimento di Stato nell’ambito dell’International Visitor Leadership Program, che è diventato anche un libro e un punto di partenza. Dopo la trasferta della delegazione italiana negli Stati Uniti, Gerardo R. López, professore e preside del Dipartimento di Leadership e Politiche dell’istruzione dell’Università dello Utah, è arrivato in Italia per portare la sua esperienza e visitare le scuole.
Professor López, a Milano e in Italia quello del “white flight”, degli alunni bianchi che non si iscrivono nelle scuole con alta concentrazione di stranieri, è un fenomeno relativamente nuovo. Voi quando lo avete registrato per la prima volta? “Il concetto di ‘white fight’ è un fenomeno che probabilmente è vecchio quanto gli Stati Uniti. Ma è importate capire la terminologia, perché il termine è nuovo. Ed è interessante che ci troviamo qui a parlare di ‘white flight’ nel 50esimo anniversario dalla morte di Martin Luter King, che ha combattuto per questo, per il rispetto dei diritti civili, la fine di queste pratiche di segregazione nelle scuole e nella società. Il ‘white flight’ è un fenomeno che più nazioni sviluppano, per cui le persone vogliono separarsi, stare con chi è ‘simile’. In se stesso non è un problema, sto con i miei colleghi, con i miei professori, ma se denigro altre persone, se lo faccio perché mi sento superiore è un problema, sì. E ci sono anche istituzioni della società che stanno contribuendo a questo”.
È un problema a maggior ragione quando sono i bambini a essere coinvolti.
“Assolutamente. Una delle regioni per cui la legge Brown v. Board of Education (contro l'ufficio scolastico, protagonista fu Linda Brown recentemente scomparsa, ndr) passò nel 1954 e che segnò, legalmente, la fine delle discriminazioni nelle scuole americane è che vennero fatti test psicologici fra bimbi: mostrarono due bambole, una nera e una bianca. Qual è la bambola più bella? Tutti gli alunni risposero “la bianca”. Qual è la bambola buona? “La bianca”, risposero. E la migliore? “Sempre la bianca”. E tu quale sei? I bimbi neri si rattristavano. È questo che suggerisce la società, che non sono uguali, il senso di inferiorità c’è ancora. La legge nel 1954 chiuse legalmente la segregazione nelle scuole, ma dobbiamo aspettare 10 anni per il discorso di Martin Luter King e se parliamo ancora oggi, nel 2018, c’è una ragione”.
Come evitare le “classi ghetto”? Le classi miste sono una risorsa?
“La società sta diventando globale, i bambini devono imparare gli uni dagli altri. Le classi miste sono una risorsa, come sul lavoro. La diversità fa diventare i gruppi più forti, le imprese più forti, le scuole più forti”.
Una delle “resistenze” maggiori, e il pensiero di alcune famiglie e anche di alcuni maestri, è che la presenza di alunni stranieri alle elementari “frena” la classe, non permette di essere a passo col programma.
“Questo è il motivo per cui dico che l’educazione professionale degli insegnanti è fondamentale. Serve un aggiornamento professionale continuo per migliorare le capacità, la pedagogia, sviluppare se stessi come insegnanti. Se si pensa solo al programma scolastico non si impara nulla. E invece le classi miste sono una risorsa anche per i docenti, chiamati ad adottare nuove tecniche, strategie, a coinvolgere i bambini. Quando si ha una nuova popolazione si ha l’opportunità di fare “arrangiamenti” in classe, si deve cercare di arrivare a tutti. Altrimenti si rischia di avere maestri frustati, famiglie frustrate, scuole che soffrono e si mettono i bambini contro gli altri. È importante affrontare questi problemi non più in solitaria. Bisogna supportare insegnanti e famiglie”.
Pensa che metodi alternatovi o una maggior attenzione all’edilizia scolastica possano incentivare le famiglie a tornare alle scuole che hanno abbandonato per l’alta concentrazione di alunni stranieri?
“Alcune pratiche che abbiamo provato noi all’inizio hanno avuto successo. La prima è stata portare i bambini da una scuola all’altra, fisicamente, per integrarle. Avevamo scuole spagnole, inglesi, africane. L’ho provato anch’io, mi venivano a prendere al mattino e mi portavano nell’altra scuola. All’inizio funzionò ma non fu la soluzione. “Perché dobbiamo spostare nostro foglio in un’altra classe? Noi vogliamo una scuola di qualità qui”, dicevano i genitori. Si provò con le scuole “calamite”, con diversi curricula e tecnologia per attirare la popolazione studentesca, renderle più “cool”. Il problema adesso è che queste scuole “calamita” sono tutte bianche. È stata un’altra buona idea ma a breve tempo”.
Che fare quindi? Il consiglio alle scuole milanesi?
“Provare diverse strategie. Non c’è una soluzione perfetta. Adesso noi negli Stati Uniti stiamo testando le “Charter school” (scuole innovative dove l’investimento è pubblico ma sono gestite privatamente, ndr). Funzionerà? Non lo so, ma stiamo provando. La più importante lezione che l’Italia e Milano può ricavare è questa: provare, essere innovativi, lavorare collettivamente con la società. Se non si prova non ci sarà miglioramento”.
Coinvolgendo anche le famiglie?
“Assolutamente. Se non lavori con i genitori è dura. Il segreto, la ricetta speciale, è mettere famiglie, insegnanti e alunni a lavorare insieme. Se hai l’opportunità di diventare amico dell’altro. Di lavorarci insieme e collaborare a progetti, si abbattono i pregiudizi mentali. È il migliore antidoto contro la xenofobia”.