CHIARA ARCESI
Cronaca

Il futuro della metropoli: "Inclusività e periferie: torniamo a sperimentare"

La ricetta di Luciano Galimberti, presidente dell’ADI Design Museum "La città riparta dal “coeur in man“ per non lasciare indietro nessuno".

La ricetta di Luciano Galimberti, presidente dell’ADI Design Museum "La città riparta dal “coeur in man“ per non lasciare indietro nessuno".

La ricetta di Luciano Galimberti, presidente dell’ADI Design Museum "La città riparta dal “coeur in man“ per non lasciare indietro nessuno".

"Milano con il cuore in mano". Recuperare i valori dinanzi al dinamismo caratteristico della città. È il pensiero sulla trasformazione urbana di cui si fa portavoce uno dei protagonisti più attivi dell’architettura, dell’exhibition design e della comunicazione: Luciano Galimberti, presidente dell’ADI Design Museum.

Luciano Galimberti, quali sono i pro e i contro della città e più in generale dell’Italia dal suo punto di vista di design manager?

"I pro sono evidenti, Milano è la capitale del design riconosciuta nel mondo perché è un centro focale di idee e di interessi. Il design nasce qui e ha successo perché la pluralità degli interessi dei progettisti, degli imprenditori, del sistema distributivo, converge in un unico progetto. E ciò è fondamentale. Il contro è il senso di responsabilità che abbiamo dinanzi a questo ruolo di capitale del design, bisogna conquistarlo quotidianamente. Dico sempre che “non c’è futuro senza sperimentazione quotidiana“. In quest’ottica, quindi, il design deve dimostrare sempre di meritarsi questa posizione. Non c’è tradizione senza rinnovamento, altrimenti diventa nostalgia. Dobbiamo continuare a rinverdire questa idea di design".

Quindi, se serve, come cambiare la città di Milano e l’intero Paese?

"Cambiare è sempre importante, in meglio è fondamentale. E sulla definizione di meglio si apre un dibattito. La città può essere per pochi, per molti, dove mediamente il pianeta tende a raggrupparsi. Ma il fatto che tutti vadano in città non corrisponde al fatto che queste città siano per tutti. E questo è un grosso limite".

L’inclusività, quindi, il primo caposaldo su cui agirebbe?

"Assolutamente. Già il nostro museo è un museo di ricerca, non celebrativo, e quindi pone la lettura della collezione storica permanente con l’argomento della contemporaneità. L’attività vera è dimostrare non che l’oggetto sia bello ma che abbia comportato un cambiamento nella nostra vita. Venendo al cambiamento di Milano non c’è un’unica ricetta per risolvere i grandi problemi della città. Ma credo che ognuno debba e possa fare del proprio meglio per migliorare il proprio ambito. Se tutti i professionisti in campo lo facessero sarebbe già tanto".

Detto questo, c’è poi un problema di identità.

"La città è un luogo di aggregazione. Tutti si aspettano di avere lavoro, attrattività, divertimento, ma non è sempre così; ci sono problemi di emarginazione, di differenza, di accesso alle risorse. A questo punto la città deve far conto di qual è la propria mission, cosa vuole diventare da grande, per non perdere la propria identità".

E, nel concreto, come agirebbe?

"Sull’inclusività. Ridare a questa città i grandi valori che ha sempre dimostrato. Non è un caso che Milano sia la prima città ad aver attivato il project financing e che abbia pensato al primo ospizio per gli anziani. Insomma, si diceva “Milano con il cuore in mano”. Una realtà, questa, che ogni giorno, però, credo, debba essere riscoperta".

Insomma, dinanzi al dinamismo milanese, i valori non devono essere persi di vista?

"Sì, vivere a Milano dev’essere diverso rispetto a vivere in un’altra qualsiasi capitale del mondo. Altrimenti non avrebbe senso, saremmo un’economia massificata dove la corsa è semplicemente il carattere finanziario ed economico. Milano ha tutte le carte per fare la differenza, dobbiamo essere certamente attrattivi attraverso i valori".

E come esprimerli con il design in interventi concreti?

"Il design italiano non si è mai limitato al disegno di forme di oggetti. è sempre stato costruzione di relazione. In quest’ottica si pongono quindi temi di carattere politico, umanistico prima di tutto. Il design è certamente una disciplina tecnico-scientifica, detto questo la capacità narrativa che il design italiano ha di sintesi, non attraverso le forme ma attraverso le relazioni che riesce ad attivare, è straordinaria, il mondo ce lo invidia e nessuno riesce a copiarci finora".

A quali quartieri darebbe rilievo nel processo di trasformazione e di recupero dei valori che citava?

"Ogni periodo storico ha delle emergenze. Quando studiavo all’università l’emergenza principale era il recupero dei centri storici. Oggi siamo in una situazione completamente diversa. I centri storici sono stati riqualificati, però hanno espulso tutta una serie di attività; banalmente si fa fatica a comprare il prosciutto crudo. Oggi, secondo me, il vero problema è l’inclusione della diversità che si concentra principalmente nei quartieri periferici".

Quindi intervenire in periferia?

"Si, e addirittura oltre la periferia, nella frangia urbana. Un problema di connessioni rapide, di accessibilità ai servizi. Tutto ciò va pensato e adeguato costantemente. Questa, secondo me, è la priorità".