GIULIA BONEZZI
Cronaca

I geniali dilettanti del Niguarda: "Così medici, infermiere e suore fecero scappare 40 antifascisti"

Nel ’43 il Padiglione Ponti succursale di San Vittore: una targa ricorda le evasioni di ebrei e partigiani. La storia della Resistenza tra ospedale e quartiere salvata dall’Anpi con un libro e un docufilm.

Nel ’43 il Padiglione Ponti succursale di San Vittore: una targa ricorda le evasioni di ebrei e partigiani. La storia della Resistenza tra ospedale e quartiere salvata dall’Anpi con un libro e un docufilm.

Nel ’43 il Padiglione Ponti succursale di San Vittore: una targa ricorda le evasioni di ebrei e partigiani. La storia della Resistenza tra ospedale e quartiere salvata dall’Anpi con un libro e un docufilm.

Salvarono dai nazifascisti il futuro dirigente del Partito comunista italiano Aldo Tortorella, all’epoca diciottenne ricoverato con diagnosi d’artrite acuta e soffio al cuore rimediati nelle segrete di piazza San Fedele, fatto passare da un cornicione e un montacarichi, poi un armadio, poi travestito da infermiera e nascosto per qualche giorno nel collegio dentro l’ospedale mentre questurini e fascisti gli davano la caccia. Salvarono l’anarchico quarantenne Salvatore Di Gaetano, di professione fabbro, che anni dopo porterà una rosa in ferro battuto al capezzale della suora-caposala che l’aveva nutrito rispettando la sua dieta vegetariana ante modam e curato, prima di aiutarlo a scappare dal Padiglione Ponti dell’ospedale Niguarda. Che nell’estate del 1943, dopo che un bombardamento alleato aveva messo fuori gioco l’infermeria di San Vittore, si trasforma in una grande medicina penitenziaria piena di degenti-detenuti, compresi i “politici”. Solo che dentro l’ospedale lavora una rete di medici, infermiere e suore coraggiosi, attivissimi nella Resistenza, dalla diffusione di materiale clandestino all’invio di materiale sanitario alle brigate partigiane al ricovero sotto falso nome e al salvataggio di ebrei e “ribelli” condannati a morte certa nei venti mesi d’occupazione: taroccheranno le diagnosi dei prigionieri antifascisti per allungarne la degenza e ne fanno evadere una quarantina con i più rocamboleschi espedienti.

Da ieri chi entra ed esce da quello che è diventato il Blocco Sud dell’ospedale Niguarda può incontrare una targa che ricorda come "qui si sia fatta la storia non solo della medicina, ma anche della città", riassume il direttore generale Alberto Zoli. È una storia che rischiava di rimanere sepolta, come tante storie di "uomini e donne che più di ottant’anni fa rischiarono la vita per ridare la libertà a questo Paese senza chiedere nulla - ricorda il presidente dell’Anpi milanese Primo Minelli –. Moltissimi poi condussero esistenze normalissime", senza raccontare o raccontando solo a figli e nipoti quello che avevano fatto.

Storie che sono il tessuto di una Storia con la maiuscola "di cui, come italiani, possiamo dirci fieri", ricorda il predecessore di Minelli, Roberto Cenati, nella prefazione del libro “Malati di libertà. Storia delle evasioni dei prigionieri antifascisti dall’ospedale milanese di Niguarda (1943-1945)”, pubblicato l’anno scorso da Mimesis, in cui questa memoria s’è salvata grazie a un lavoro certosino, da storici, di Daniele Pascucci, Riccardo Degregorio, Alessandro Schiavoni e Carlo Celentano.

Sono partiti dalle testimonianze e dagli appunti di Lelia Minghini, infermiera di origini romagnole, donati all’Anpi Niguarda, e hanno riannodato fili e voci, compresi i particolari divergenti e le molteplici versioni in cui prende forma, nei ricordi, la realtà, a documenti recuperati anche negli archivi storici del Policlinico alla Ca’ Granda e della Scuola infermiere, qui al Niguarda. Dove ieri, dopo l’inaugurazione della targa con la Sezione Martiri Niguardesi dell’Anpi, è stato proiettato in aula magna il docufilm “Malati di Libertà - Le evasioni dei prigionieri antifascisti dall’Ospedale Niguarda”, tratto dal libro e diretto da Valerio Di Martino, "un regista - rimarcano gli autori - che ha meno di trent’anni".

L’ospedale ne aveva meno di quattro, in quell’estate 1943: aperto nell’ottobre del 1939, allora come ora "un quartiere nel quartiere", ricorda il dg Zoli, dove oggi passano dodicimila persone al giorno, con trenta cantieri aperti per le Olimpiadi e ancora tanto da fare per riportare alcune architetture vetuste all’altezza di quello che recentemente è stato promosso miglior ospedale d’Italia da Newsweek essendo orgogliosamente "pubblico e generalista, permeabile" al Niguarda quartiere. Che in quel 1943 solo da vent’anni era passato da borgo a pezzo di città, ricorda la presidente del Municipio 9 Anita Pirovano: "Molti niguardesi ancora dicono: “Vado a Milano”".

Ma già da fine ’800 a Niguarda le cooperative costruivano case per muratori e operai delle fabbriche milanesi e compravano all’ingrosso cibo e combustibile per garantire prezzi popolari: il fascismo faticava a far proseliti e ne ebbe molti la Resistenza, movimento "di massa, di popolo. Composta di tante figure sociali, compreso il personale sanitario e i religiosi che non imbracciavano il fucile ma rischiavano ugualmente la vita - sottolinea il presidente dell’Anpi Minelli –. Nel Cln erano rappresentate tutte le opinioni politiche, dai comunisti, che ebbero un ruolo sicuramente centrale, fino ai monarchici. Uomini e donne che hanno messo in gioco tutto, senza chiedere nulla, perché condividevano valori trascritti nella nostra Costituzione come la solidarietà, la tolleranza, l’eguaglianza. E la libertà, che non esiste senza responsabilità".