Gruppo Armani, operai cinesi sfruttati e caporalato: “La regola era aumentare la produzione senza curarsi della sicurezza”

Dipendenti sottoposti a “condizioni degradanti” e turni di lavoro massacranti, macchinari pericolosi modificati per accelerare il ritmo. Nell’inchiesta che ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la società la domanda è: Armani sapeva?

Uno dei laboratori-dormitorio dove venivano prodotti gli accessori Armani

Uno dei laboratori-dormitorio dove venivano prodotti gli accessori Armani

Aumentare la velocità di produzione senza curarsi della sicurezza e delle condizioni dei lavoratori. Era questo, in estrema sintesi, il mantra seguito negli opifici abusivi dove venivano creati cinture e borse marchiate Giorgio Armani. Il sistema di produzione, attivo da sette anni, è finito al centro dell’inchiesta della procura di Milano.

Gli accertamenti, eseguiti dai carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro, hanno scoperto che alcuni prodotti d’eccellenza della celebre casa di moda – targati Made in Italy – venivano realizzati attraverso subappalti in laboratori-dormitorio sparsi per le province di Milano e Bergamo nei quali la manodopera cinese era sfruttata e pagata in nero con cifre irrisorie, anche di 2 euro all’ora.

A seguito delle indagini e della raccolta di numerose testimonianze, il Tribunale di Milano ha sottoposto ad amministrazione giudiziaria la Giorgio Armani Operations Spa, cioè la società che si occupa della progettazione e della produzione di abbigliamento e accessori del colosso della moda. 

Le condizioni di lavoro

Oltre alle “condizioni alloggiative degradanti” e agli orari di lavoro massacranti – “oltre 14 ore al giorno, anche nei festivi” – gli ispettori coordinati dai pubblici ministeri Paolo Storari e Luisa Baima Bollone hanno scoperto situazioni caratterizzate da “pericolo per la sicurezza”. Nelle macchine usate nei laboratori erano state eliminate numerose protezioni “al fine di aumentare la velocità di produzione del macchinario a discapito dell'incolumità dell'operatore”.

Uno dei dormitori in cui vivevano i lavoratori cinesi sfruttati e sottopagati
Uno dei dormitori in cui vivevano i lavoratori cinesi sfruttati e sottopagati

Ad esempio, alla macchina incollatrice era “stato rimosso l'inserto di plexiglass” necessario per “impedire che il lavoratore accidentalmente” rimanesse impigliato con le mani o con gli indumenti. La fustellatrice a bandiera era priva del “dispositivo di arresto di emergenza” mentre a quella tingi bordo era stato tolto “il bicchiere di sicurezza” e a quella da cucire il “carter” in genere installato per proteggere le dita.

Questo sistema di produzione generava un enorme profitto. Perché una borsa di pelle venduta nelle boutique Armani per 1.800 euro, di fatto, viene assemblata da operai cinesi per un costo di produzione di circa 90 euro, rivenduta a sua volta dai fornitori alla società principale per circa 250 euro.

Il sistema di appalti

Giorgio Armani Operations Spa, che fa parte del colosso della moda – di cui nessun dipendente, né tantomeno i vertici sono indagati – aveva “esternalizzato” la realizzazione di accessori e borse affidandola “ufficialmente” a Manifatture Lombarde srl e MinoRonzoni srl, aziende nel Milanese e nella Bergamasca. Queste avrebbero subappaltato la produzione nonostante non avessero la minima autorizzazione per assegnare il lavoro in subappalto.

I controlli hanno portato a tratteggiare un quadro di sfruttamento e di mancanza di sicurezza ed igiene per le condizioni “degradanti” in cui gli operai lavoravano. Un quadro che – si legge negli atti – ha fatto suonare “un campanello d'allarme sintomatico (...) di un sistema di produzione generalizzato e consolidato” su cui la magistratura di Milano ha acceso un faro.

La società Giorgio Armani Operations Spa ritiene di avere “da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”. Ma secondo i giudici della sezione misure di prevenzione, invece, avrebbe “colposamente alimentato” tale “meccanismo” in quanto non avrebbe “verificato la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici”. La decisione di affiancare un commissario agli organi amministrativi della società è “a favore a a tutela dell'attività imprenditoriale” del marchio.

Armani sapeva?

I quattro opifici cinesi interessati dall’inchiesta avrebbero realizzato accessori per Armani dal 2017. Negli ultimi sette anni, il controllo qualità dei prodotti sarebbe spettato a diversi intermediari. Uno di questi addetti – si legge negli atti d’indagine – andava “mensilmente” in uno dei capannoni-dormitorio e ha messo a verbale che Manifatture Lombarde srl, una delle due società appaltatrici dei lavori Armani, “non ha un reparto produzione” e non potendo “evadere le commesse” esternalizzava “le lavorazioni” ai “sub-committenti”.

Eppure la società Giorgio Armani Operations Spa “non ha accertato” che la “società appaltatrice non ha un reparto produzione”. Avere un reparto produzione era, si legge sempre negli atti, l’unico “requisito necessario ad ottemperare le obbligazioni commerciali sottoscritte”.

È dunque “fuor di dubbio – scrive il Tribunale – che la società non abbia mai effettivamente controllato la catena produttiva, verificando la reale capacità imprenditoriale delle aziende con le quali stipulare i contratti di fornitura e le concrete modalità di produzione da esse adottate, e che sia rimasta inerte pur venendo a conoscenza dell’esternalizzazione di produzioni da parte delle società fornitrici, omettendo di assumere iniziative”.

Per i giudici, “non si tratta di fatti episodici o limitati a singole partite di prodotti, ma di un sistema di produzione generalizzato e consolidato, tenuto conto che tale modus operandi è stato riscontrato non solo in relazione a differenti categorie di beni (borse, cinture, ecc), ma si ripete, quantomeno dal 2017 sino ai più recenti accertamenti dello scorso febbraio”.

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