
Domenico Guglielmo in pensione dal primo settembre: ha traghettato il liceo per 11 anni "Nostalgia? Si sente già. Lascio ai ragazzi un orticello e rileggo i classici. Qui c’è il futuro".
Tutto è cominciato il 27 agosto di undici anni fa: in viaggio dalla Sicilia ho scoperto di essere diventato il preside del Berchet. Il Berchet di Luchino Visconti, Don Milani, Enrico Ruggeri, Walter Molino. Anche Enzo Jannacci ha frequentato un anno qui. Ed è il liceo dove si è diplomata mia figlia. Una bella responsabilità, che ho sentito e fatto mia". Ultimi giorni di scuola per Domenico Guglielmo che dal primo settembre andrà in pensione, lasciando il timone alla prima preside donna in 114 anni di storia del liceo di via della Commenda, Clara Atorino.
I primi passi a Milano?
"Nel 1987. Sono qui da quando, giovanissimo, dopo essere stato dattilografo per otto mesi a Reggio Emilia, vinsi il concorso per entrare a Palazzo di Giustizia. Sono stato per cinque anni e mezzo in Corte d’Appello. Negli anni di Mani Pulite".
Il primo ricordo?
"Tutta quella gente sulle scale, che osannava i magistrati. Sono stati anni intensi. Ho fatto il funzionario di cancelliera, responsabile della segreteria magistrati. Mi sono trovato benissimo".
Ma ha deciso di virare verso il mondo della scuola: perché?
"Il mio pallino è sempre stato quello di diventare professore. E fare concorsi il mio destino. Un paio (alle Dogane e alle Imposte) li ho rifiutati: mi spiaceva lasciare Milano, era diventata casa, ho trascorso più anni qui che altrove. Poi ho vinto quello per insegnante, sono diventato professore di Diritto al Puecher di Rho".
E che realtà ha trovato?
"Molto particolare. Ero al professionale: bisognava cercare di convincere i ragazzi a studiare e motivarli parecchio. Mi sono sentito utile: riuscire a trovare uno spazio anche per Diritto ed Economia tra Meccanica ed Elettronica e motivare ragazzi che in partenza non avevano un’idea del futuro così precisa non è stato facile, ma è stato entusiasmante. Tanto che sono stato 18 anni nella stessa scuola: anche tra noi insegnanti, tutti trentenni, si era creato un bel gruppo".
Poi un altro concorso chiamò.
"Sì, il famoso concorso del 2012. Che è stato bloccato per due anni, in cui ho insegnato al Primo Levi di Bollate. Ci hanno chiamato nel 2014. È stato il mio primo e unico incarico da dirigente: sono qui da undici anni".
Nel più classico dei classici.
"Una bella responsabilità, anche perché arrivava in un periodo in cui il liceo classico, in tutta Italia, cominciava a perdere iscritti. Ed è stato anche un ritorno alle origini: mi sono diplomato al classico. Sono stato accompagnato da una bravissima Dsga e da una bravissima vicepreside, mi hanno insegnato moltissimo".
Come avete reagito alla prima crisi dei classici?
"Milano era in controtendenza. Ma qualche segnale c’era: partivamo da 32 classi, l’anno successivo erano 31. Ci siamo inventati i potenziamenti, a cominciare da quello di Cambridge e poi di Matematica e Comunicazione. Qui c’erano ancora numeri interessanti, ma abbiamo voluto dare una risposta e siamo cresciuti fino ad arrivare a 45 classi".
La seconda crisi è arrivata anche a Milano. Ed è in corso.
"Sì, è cominciata con il Covid ed è più dura perché adesso è accompagnata da una forte crisi demografica. Quest’anno abbiamo avuto 32 classi, l’anno a venire siamo di meno, ma speriamo di tornare a crescere".
Il classico ha futuro?
"Sono di parte. Ho frequentato il liceo classico, sono il presidente di un classico importante da 11 anni, ho sposato una mia compagna di classe, mia figlia si è iscritta al Berchet. Però credo che il liceo classico riesca a dare una competenza: l’imparare a imparare. Fondamentale in un mondo così veloce dove bisogna sapersi reinventare e approfondire. E ha sempre formato ragazzi in grado di affrontare le Stem".
Il periodo più duro?
"Durante la pandemia, i Dpcm che uscivano sempre nel weekend, cambiavano regole e percentuali di presenza. Un tetris. C’è stato il tema della didattica a distanza, ma con l’informatica al Berchet eravamo già avanti. E poi la levata di scudi contro le mascherine, anche se abbiamo avuto pochi casi".
Archiviato quello, è arrivato il Pnrr: è cambiato il ruolo del preside in questi 11 anni?
"Sì, sono aumentate le competenze. Ed è diventato un ruolo più amministrativo e burocratico. Si fa più fatica a trovare il tempo per entrare nelle classi, ma io non ho mai voluto abbandonarlo quell’aspetto. Entravo anche come supplente per sostituire chi non c’era e parlavo di Diritto, che ha sempre il suo fascino, anche nelle cogestioni, o di Informatica, altra mia passione. I genitori sono molto più attenti e presenti. I ragazzi sono più fragili dopo il Covid, ma è giusto che imparino la resilienza: il sapere rialzarsi dopo una caduta per ricominciare. Oggi vedo più difficoltà in seconda e in quarta".
Una cosa che avrebbe voluto fare, che è rimasta sospesa?
"Credo di avere fatto tutto, grazie anche ai professori, agli studenti, al personale: ho lasciato un orticello, con piante che guardano alla Letteratura classica. Ho potenziato l’Informatica, ho cercato di mantenere un rapporto umano con tutti. Ecco, mi sarebbe piaciuto andare avanti nella creazione di un modello nuovo di scuola, sperimentale, collettivo. Parlo volentieri con i ragazzi. Vedo il futuro nei loro occhi. Lascio con la consapevolezza che la scuola ha contribuito a crearlo quel futuro".
Che si fa adesso?
"Ci si dedica un po’ a se stessi, perché di tempo ne ha avuto poco. Si recupera la lettura. Sto leggendo “Se la rosa non avesse il suo nome“, di Andrea Pennacchi. Ma ne approfitterò per rileggere i classici. Sembra strano, ma mi chiedo quanti abbiano veramente letto l’Odissea dall’inizio alla fine per il piacere di farlo. O i Promessi Sposi di Manzoni. E poi ho un sogno, non so se riuscirò a realizzarlo: ricostruire per quanto possibile Messina con la realtà virtuale prima del terremoto. Avrò nostalgia del Berchet, sì. Ma è il momento della vita in cui si deve cambiare prospettiva: 65 anni sono giusti. E prima della nostalgia ho dieci giorni di lavoro duro: ci sono gli esami di riparazione". Un altro grande classico.