
"Questi ragazzi crescono col terrore delle autorità e la sfiducia per lo Stato. Bisogna dare speranza" .
MILANOAccanto alla scritta “Ramy“ che si legge su tutti i muri al Corvetto si è aggiunto di recente un altro nome, anche questo accompagnato da un cuore: “Momo“. Sono Mahmoud Mohamed, vent’anni, e Ramy Elgaml, diciannove. Figli del quartiere, abitavano entrambi in via Mompiani, uno di fronte all’altro, nelle palazzine popolari, morti a pochi mesi e metri di distanza. Entrambi durante una fuga dalle forze dell’ordine. Ramy deceduto lo scorso 24 novembre, all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, dopo un inseguimento di otto chilometri iniziato in viale Monte Grappa con un alt dei carabinieri ignorato dal conducente dello scooter Fares Bouzidi. Mahmoud, orginario della Libia, si è andato a schiantare mesi dopo su uno spartitraffico, a 850 metri di distanza, dopo aver incrociato una volante della polizia in viale Ortles. "Stesso marciapiede, stesso tragico destino", riassume il portavoce della comunità egiziana di Milano, Aly Harhash. Secondo lui si tratta di due storie simili, seppur molto diverse dal punto di vista della dinamica, nella quale si rintraccia almeno una costante, anche considerando la protesta che ha infiammato il quartiere dopo l’accaduto: "Questi ragazzi crescono con il terrore dell’autorità e con la sfiducia verso lo Stato". La morte del ragazzo egiziano è stata una miccia: "Non vogliamo la violenza e non è una questione di vendetta, lo ha anche detto bene il padre di Ramy, ma la tragedia ha fatto uscire tutta la rabbia sopita". Molti ragazzi del quartiere "il futuro non lo vedono. Navigano nel buio. Non hanno alternative nella vita". Così, "è facile prendere una strada sbagliata". La vicenda ha creato una frattura anche tra gli abitanti: "Basta attaccare i musulmani, venite (si riferisce alle istitituzioni) a parlare con questi ragazzi, date loro una speranza, un futuro, non un lavoro precario. Significherebbe anche fare il bene degli italiani". Anche se la famiglia del ragazzo egiziano ha voluto mantenere il silenzio stampa sulla vicenda processuale, aggiunge, la "questione è viva". J.M.C.