
Don Domenico Storri, fondatore dei iSemprevivi, accoglie ragazzi con disturbi psichici o sociali "C’è chi è rinato grazie al lavoro e ci sono i fallimenti. Noi adulti dobbiamo ascoltarli di più".
"Il nome lo hanno scelto i ragazzi: andavamo spesso in montagna e il semprevivo è un fiore che cresce lì e che per vivere necessita di poca acqua, poco terreno. Anche un malato mentale necessita di poco per vivere: basta una comunità attenta, non giudicante e non piena di stigma". Don Domenico Storri, per tutti “il Dondo“, è psicoterapeuta e fondatore de iSemprevivi, associazione nata sotto l’ala della parrocchia San Pietro in sala, che da vent’anni accoglie adolescenti e giovani adulti in situazioni di fragilità psicologica e sociale. È anche l’anima della “Crazy Week“, che fino a venerdì accenderà un faro sulla salute mentale, tra dibattiti scientifici, “Crazy Run“ - per lasciarsi alle spalle pure l’ansia da competitività - ed eventi.
Don Domenico, come stanno i nostri ragazzi? E sono davvero più fragili di un tempo?
"Il disagio esistenziale c’è sempre stato, fa parte di un’irrequietudine che accompagna la vita di tutti: chi non ha mai sofferto? È anche vero che in alcuni periodi storici il disagio è maggiore. Oggi abbiamo giovani che hanno risorse magnifiche, hanno la possibilità di viaggiare per il mondo in pochi secondi. Questo aprirsi al mondo in maniera così frammentaria, sporadica e veloce impedisce però loro di mettere radici. Ci vogliono pazienza, tenacia, perseveranza. Si diventa fragili se queste radici non hanno il tempo di radicarsi: al primo vento rischiano di cedere. Abbiamo giovani con grandi risorse, frustrazioni e fatiche".
Quali sono i “sintomi“ di queste fatiche?
"Spesso non si sentono in grado, cadono in ansia, soffrono di disturbi psicosomatici, sentono che la comunità adulta non è in grado di ascoltarli. E se li ascoltiamo poco vanno in cerca di un altro canale di espressione: a volte può essere la musica, ma altre un agito violento o l’uso di stupefacenti come anestetici, per soffrire meno. Molti giovani usano lo spinello per lenire le loro sofferenze e paure per dieci minuti".
Si fanno male. Fanno del male agli altri.
"L’autolesionismo, l’attaccare il proprio corpo, è qualcosa che fanno per sentirsi vivi: tagliarsi diventa un ripiegamento su se stessi laddove non riescono a essere accolti o una richiesta di aiuto. Don Claudio Burgio ci ha spiegato che anche i ragazzi che vanno in giro con i coltelli e che facilmente cadono nell’usarli, il più delle volte li hanno con sé come forma di difesa. Non riescono a fidarsi più degli adulti, della legge. E ci deve interrogare sulle azioni da intraprendere".
Cosa dicono i ragazzi al Dondo?
"Ricordo le parole di una ragazza borderline, che per me sintetizzano tutto: “Io sono come te amplificata“, nel senso che vivo le tue stesse emozioni e paure ma le amplifico. La grande sfida che deve avere una comunità civile, parrocchiale e religiosa è ascoltare queste paure, queste emozioni e anche questo “disagio esistenziale“ e intercettarlo prima che diventi patologico".
Come?
"Serve una comunità adulta attenta, capace di dare risposte. A partire dalla famiglia: bisogna saper leggere i segnali, vedere se un ragazzo non dorme, se cambia il giorno per la notte, se si isola. Bisogna anche essere in grado di litigare con loro: troppo spesso non si ha il tempo di sedersi a tavolino, si è stanchi per sostenere una discussione. Interroghiamoci anche su che scuola stiamo loro consegnando: una scuola competitiva? Basata solo su nozionismo o che porta messaggi esistenziali? Fa tutto parte di un grande pacchetto che si chiama prevenzione".
Don Domenico, lei è anche psicoterapeuta: quanto questo sguardo la aiuta nel confronto con i ragazzi?
"Ho sempre avuto questa attenzione - oltre che all’aspetto teologico - a quello psicologico. Non fine a se stesso però. Per me è uno strumento in più per vivere al meglio il mio ministero: bisogna capire non solo la dimensione spirituale ma paure, emozioni, comportamenti. La psicologia per me è al servizio dell’impegno pastorale, non sono due entità parallele e divergenti: le ho fatte convergere. Sono un sacerdote-psicologo".
Come ha avuto inizio questo percorso?
"Prima è venuta lo studio della Teologia. Poi sono stato per dieci anni all’oratorio di Melegnano e quando mi sono trasferito a Milano ho cominciato a studiare Psicologia all’università Cattolica: mi sono laureato nel 2007".
Quanti ragazzi ha accolto in questi anni? Quante rinascite ha visto dal suo osservatorio?
"A occhio e croce 500, 600. E di rinascite ne abbiamo viste parecchie, come di fallimenti. Siamo riusciti anche ad assumere nella nostra cooperativa 12 ragazzi che avevamo seguito. E il lavoro cambia la vita, come la scuola. Qualcuno dei nostri ragazzi è tornato a studiare, si è diplomato, laureato. C’è chi oggi ha creato una famiglia".
E i fallimenti?
"Bisogna metterlo in conto e fanno parte dell’essere impotenti davanti a certe dinamiche. Li vediamo nei continui accessi ai pronto soccorso, nei ricoveri".
Che storie hanno alle spalle?
"Ci possono essere fattori di rischio, ma il disagio colpisce tutti: il ricco, il povero, l’analfabeta e il laureato. Ci sono trascurati e il viziati".
I giovani chiedono aiuto?
"C’è chi è consapevole del disagio e si fa avanti e chi non lo chiede: a volte vengono i genitori, ma i figli dicono di non aver bisogno di nessuno e si finisce su un binario morto. Se c’è la percezione del disagio si può cominciare a lavorarci su".
Nella Milano tempestata da week, lei e la sua associazione ne avete voluta una più “crazy“. Perché?
"È nata quattro anni fa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salute mentale, utilizzando linguaggi diversi. Anche lo sport: alla Crazy Run si corre non per vincere ma per esserci. Si ascoltano storie di chi ha avuto un passato travagliato ed è diventato educatore. Si creano occasioni di aggregazione e dibattiti. Simona Police, la nostra bravissima direttrice, ha pensato a un linguaggio plurimo, che possa coinvolgere tutti, per lanciare messaggi positivi. Il nostro è un gioco di squadra".