MARIANNA VAZZANA
Cronaca

Gianni Biondillo e Milano che cancella gli edifici storici: “Non lasciamo memoria e identità in mano al mercato”

Lo scrittore e architetto: “Bene che i cittadini si mobilitino per non distruggere i palazzi antichi. Bisogna trovare un equilibrio tra vecchio e nuovo”

Gianni Biondillo, 57 anni

Gianni Biondillo, 57 anni

Milano – “È una città affascinante, Milano, che non si fossilizza sul passato ma che nello stesso tempo non vuole perdere la sua memoria. Condizione “normale“, si potrebbe pensare. Ma in questa città che evolve di continuo, il ritmo è velocissimo. E allora come si fa? Cosa conservare e cosa trasformare? Occorre trovare un punto di equilibrio senza lasciare che a gestire il cambiamento sia il mercato puro". È il punto di vista di Gianni Biondillo, scrittore e architetto milanese. Giallista con in tasca una laurea in tutela e recupero del patrimonio storico e architettonico, tra gli animatori del progetto “Sentieri metropolitani” per scoprire Milano a piedi, aiuta a guardare anche i quartieri più distanti dal centro con occhi attenti. Perché c’è tanto da ammirare, anche a livello urbanistico, pure tra i palazzi popolari. Lo sa bene lui, cresciuto a Quarto Oggiaro e ora residente nella zona di via Padova.

Negli ultimi mesi, l’abbattimento di palazzi antichi (di 70 anni o più) ma non protetti da vincolo, ha scatenato mobilitazioni di cittadini contrari alle demolizioni. Si cancella il passato per far posto ad appartamenti di nuova generazione o poli commerciali. Che ne pensa?

“Intanto apprezzo le mobilitazioni di cittadini perché rappresentano l’esternazione di un senso di appartenenza, il desiderio di cura del proprio territorio, il sentirsi parte di un’identità collettiva che si costruisce anche attraverso i luoghi. Sicuramente, gli edifici che hanno contribuito a costruire questa identità non vanno cancellati come se nulla fosse: occorre pensare a dei meccanismi di tutela per tutti quei palazzi che, pur non essendo monumenti, sono parte di una storia. D’altro canto però occorre pensare che le città, Milano compresa, non potranno mai essere ‘bloccate’ in un momento ideale, magico. Il cambiamento è fisiologico. Occorre quindi agire trovando un punto di equilibrio anche se non è semplice. Di sicuro non bisogna lasciare carta bianca al mercato puro, per evitare la speculazione edilizia che non lascerebbe speranza al ‘vecchio’. Nello stesso tempo, cerchiamo di guardare al ‘nuovo’ senza pregiudizi, pensando che le architetture che oggi piangiamo, spesso, erano considerate insignificanti o addirittura non gradevoli esteticamente quando sono state realizzate”.

E cosa eliminare?

“Non è tutto da conservare, certamente. Ci sono edifici che arrivano alla fine del loro naturale ciclo di vita e che non ha senso recuperare. Pensiamo a quell’edilizia del dopoguerra costruita di fretta, nell’emergenza, non pensata per durare a lungo. Ma, attenzione, occorre saper distinguere. Ci sono anche degli edifici particolari, costruiti 50, 60, 70 anni fa, da una generazione di architetti razionalisti. Non è facile amare questo genere, a differenza del liberty e dello stile neoclassico. Nel mio libro ‘Quello che noi non siamo’ (Guanda editore, ndr) ho cercato di raccontare la generazione di quegli architetti che tra gli anni Venti e la fine della Seconda Guerra Mondiale hanno trasformato Milano in uno dei laboratori di modernità. Una generazione che credeva nel fascismo perché convinto fosse una rivoluzione. Tra le eredità di quel periodo, mi vengono in mente le quattro case di Giuseppe Terragni, tra cui quella di corso Sempione. Le costruzioni erano imponenti, minimaliste e funzionali. Noi magari non ci facciamo più neanche caso, passandoci davanti, e c’è chi arriva da altri Paesi proprio per ammirarle”.

Altre bellezze lontane dal centro, che meritano attenzione?

“Ce ne sono molte. Penso al QT8 progettato dall’architetto Piero Bottoni, nato dalla necessità di una ricostruzione postbellica ma che ha al centro la qualità ambientale e l’armonia. Sua l’intuizione di creare la Montagnetta di San Siro, nata dalle macerie lasciate dalla guerra (e dedicata alla moglie Elsa Stella, ndr) e rimasta come una montagna magica nel cuore della pianura. Altra bellezza è quella del Monte Amiata, complesso residenziale nel quartiere Gallaratese (tra le vie Cilea e Falck, ndr) progettato dagli architetti Carlo Aymonino, col fratello Maurizio, e Aldo Rossi e realizzato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: stecche rosse multipiano, con numerosi passaggi anche aerei che collegano gli edifici tra di loro. Progettato da Aldo Rossi anche il complesso di Vialba, forse la sua opera più importante tra le case popolari".

Pare che la grande colonna bianca all’angolo sia un richiamo alla Colonna del Filarete di Venezia...

“Chissà. Magari un domani i cittadini del futuro scenderanno in strada per difendere la loro colonna minacciata da un eventuale abbattimento”.

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