
Davide Teruzzi, conducente di tram Atm del deposito Leoncavallo, è morto domenica 11 maggio, dopo qualche giorno di ricovero
Melzo (Milano) – “Mio figlio era un uomo buono, si occupava di tutto. Non so come sia potuto succedere tutto questo. E da madre non lo posso accettare”. Tutto, nella casa di Melzo, in via Cremona, dove Davide Teruzzi viveva con la madre, Emilia Cirillo, parla del tranviere scomparso. La sua camera rimasta vuota, le camicie appese all’armadio, un collage di foto d’epoca in bianco e nero di tram incorniciato e appeso alla parete.
Il suo lavoro, la sua passione: quasi 25 anni in Atm, “ma aveva guidato già da prima, i pullman – ricorda commossa la madre –. E da bambino era appassionato di trenini”.
A Melzo vive anche il fratello minore del cinquantenne. Ieri pomeriggio è stato chiamato dai carabinieri, per un confronto sulla tragedia accaduta. Sul corpo di Davide è stata disposta l’autopsia. La madre alterna i ricordi del figlio a quelli di questa tragica settimana.
Signora, che cosa è accaduto esattamente?
“Mio figlio domenica 4 maggio lavorava, e con altri colleghi erano andati a pranzo in quel ristorante, che era convenzionato con l’azienda di cui era dipendente. Poi si sono sentiti male in sei: lui e altri cinque. Tutti sono andati al pronto soccorso poi. Lui è stato ricoverato all’ospedale di Melzo per una notte. Il giorno dopo lo hanno dimesso, perché gli esami - così hanno detto - erano “a posto“”.
E poi cosa è successo?
“È stato benino un giorno. Fra lunedì sera e martedì ha ricominciato a stare malissimo, il mercoledì lo hanno ricoverato al San Raffaele. Lo hanno messo in terapia intensiva, sotto le macchine. Ma da allora non si è più ripreso. Altro, sinceramente, non so. Se non che non ho più mio figlio, e non so cosa sia successo. Non aveva problemi di salute. Aveva appena fatto gli esami per il cuore. Era uno che si curava”.
Un ricordo di suo figlio.
“Aveva fatto cinquant’anni il 26 aprile, in tanti gli avevano mandato gli auguri. In passato aveva fatto volontariato in parrocchia. Lavorava tanto, teneva moltissimo al suo lavoro. Era una passione vera e propria. E tutti gli volevano bene. Perché mio figlio era una persona speciale”.