
La lunga pista ciclabile che collega piazzale Lodi con piazzale Corvetto
Milano – A Corvetto i muri parlano. I murales e gli striscioni dedicati a Ramy Elgaml sono ancora lì, all’angolo tra via dei 500 e via dei Panigarola. Un memoriale che chiede giustizia per il 19enne egiziano morto a fine novembre nello schianto del TMax guidato dall’amico tunisino Fares Bouzidi, in fuga da una pattuglia dei carabinieri. Dopo gli atti di guerriglia seguiti alla tragedia che hanno paralizzato il quartiere, l’Italia si è accorta di Corvetto. O, meglio, se n’è ricordata. Si è parlato di degrado, criminalità, integrazione fallita. Sacche violente e marginali pronte a esplodere.
Eppure, camminando per le sue strade, Corvetto è una normale periferia di Milano, con i suoi problemi, ovviamente, ma lontana dall’immagine di banlieue in fiamme. Anzi, è una zona animata da una forte rete di associazioni cittadine che operano dal basso. “Dire che a Corvetto non c’è integrazione è un’invenzione o un pensiero di chi non ha mai messo piede nel quartiere. A chi la pensa così dico di venire qui, di passeggiare, di chiacchierare con i ragazzi. È tutta un’altra storia”, racconta Modou Gueye, fondatore e direttore del Ciq (Centro Internazionale di Quartiere).

Al C.I.Q. si incontrano persone di tutto il mondo. Si trovano a tavola insieme, partecipano a concerti, presentazioni di libri, serate a tema. Uno dei frequentatori abituali è Leonardo Castiglione, ambasciatore dell’associazione Cat (City Ambassadors Team), incontrato proprio prima di andare a cena al Ciq: “La vita sociale e culturale di Corvetto è perlopiù sconosciuta, ma è enorme. E il Ciq ne è l’emblema, sta nella zona più periferica di tutte, al confine con Porto di Mare, ma è uno degli esempi più belli di questa realtà”.

Convivere con le comunità straniere, però, non è sempre semplice. Grazia Fabiano, residente nel quartiere dal 1969, racconta che le tensioni non sono rare: “Il mercato del martedì è un caos. Ci sono venditori ambulanti che ti assalgono e molte bancarelle di merce rubata. Alcune volte ho paura anche a passare per la zona. Servirebbero più controlli”.
Il problema sicurezza riguarda soprattutto alcune zone. Come racconta Bruno Pennati, 30 anni, venti dei quali vissuti a Corvetto: “Sono stato derubato tre volte, l’ultima 10 anni fa. Ma sono esperienze che ho visto anche in centro. Certo, conosco bene il quartiere e so quali zone evitare, per esempio dopo piazzale Gabriele Rosa la situazione cambia. Ma non vivo nella paura”. La pensa così anche Giacomo Sarasso, proprietario del Chiosco “Da Giacomo“, vera e propria istituzione del quartiere: “Passo otto ore al giorno in piazza da sette anni e non ho mai avuto problemi. Non ho percezione di insicurezza. Certo, la mia è una bella posizione, molto trafficata, vicino alla metro e illuminata. Più ci si allontana verso sud, meno il quartiere è sicuro”.
Se per alcuni la sicurezza non è un problema quotidiano, per altri il vero nodo resta il degrado abitativo. Come racconta Alberto Sanna, fondatore dell’ong Dare con sede in Corvetto: “Alcune strutture, soprattutto gestite da Aler, sono degne della periferia di Beirut, non di Milano. E lo dico perché a Beirut ci sono stato. La criminalità poi c’è, come altrove, soprattutto legata allo spaccio e a un generale senso di insicurezza. E l’immagine esterna, purtroppo, rimane questa. Ma c’è anche una forte rete di associazioni cittadine che rende il quartiere vivo e migliore. Come la Rete o il Patto Nervesa, per fare alcuni esempi”.

Tra le persone attive nella valorizzazione di Corvetto c’è anche Rossana Baroni, fotografa impegnata nel progetto “Il Miglio delle Farfalle", un’iniziativa che cura le aiuole lungo la pista ciclabile di corso Lodi, proprio per creare un chilometro in cui possa rinascere la biodiversità: “A Corvetto i problemi ci sono, ma il quartiere resiste e si reinventa grazie a chi lo vive e lo trasforma ogni giorno. Ed è questa la cosa più bella: una rete di residenti che dimostra che no, abitare a Corvetto non significa vivere all’inferno”.