Claudio
Negri
Ta ma pàret al Gaul, mi sembri Gaul: nell’arioso milanese del nostro borgo, Melzo, papà cercava di rimettermi in sella. Una sella peraltro nuovissima, come tutto il resto della bicicletta color blu oltremarino, ruote numero 22, manubrio cosiddetto sportivo, con le manopole dei freni in avanti. Avevo sette anni. Uscendo dalla Casa del Ciclo con la bici fiammante mi vergognai come un ladro, come se l’avessi rubata. Chi è - o è stato - timido sa bene come mi sentivo. Oltretutto, alla prima pedalata qualcosa si incastrò in una larga fessura tra i tavelloni di pietra che marcavano con due file parallele la via che portava alla vecchia Galbani e alla stazione. La bici s’era imbizzarrita senza un nitrito e io, per moto inerziale, ero volato oltre il manubrio sportivo, cadendo sui sassi col nudo dei ginocchi. Avevo voglia di piangere. Ma il papà mi aveva già tirato su, tamponando col suo fazzoletto le sbucciature sanguinolente: “Ta ma pàret al Gaul”. E mi rimise in sella. Sapevo, vagamente, che Gaul era un corridore ciclista. Che cadeva spesso. Più di tutti, secondo i vangeli apocrifi. Ma la cosa non gli impediva di essere un fuoriclasse. Da genitori – anch’io ne so qualcosa – si danno talvolta consigli superflui. Però quello del papà non era un consiglio, piuttosto una risoluzione di buon senso: quando cadi, prova a rimetterti subito in corsa. Il destino di un ciclista è costellato di punti di caduta. E di risalite in sella, senza troppe storie né prognosi riservate. Nella mia vita ho avuto finora due capitomboli seri e non ciclistici: ho cercato di rimettermi in sella e non è stato facile: al traguardo non c’era la bella miss tappa coi fiori e lo champagne, ma la vita stessa in bilico. Rivedo il celta lussemburghese Charly Gaul vincere di fatto il Giro d’Italia del 1956 nella tormenta del Bondone. Pagina di epica straziante. Nella sua faccia da rompighiaccio, anche in foto senili, gli occhi azzurri di Gaul paiono colmi di lacrime. Quell’antico pianto trattenuto. Dopo ogni caduta.