Capotreno aggredito con il machete. "Carlo sanguinava a terra, io l’ho soccorso. Vorrei incontrarlo"

Il racconto di Erika, la giovane che per primo ha soccorso Carlo Di Napoli, salvandogli la vita FOTO - Le immagini della telcamera / I rilievi della polizia / Gli arrestati

Un frame dell’aggressione al capotreno Carlo Di Napoli

Un frame dell’aggressione al capotreno Carlo Di Napoli

Milano, 26 giugno 2015 - Finora Erika Santoro aveva affidato il suo racconto solo alla polizia, che l’ha messo a verbale la notte dell’11 giugno. Era circa l’una quando è stata chiamata a deporre. Aveva fatto giusto in tempo a togliersi i vestiti, macchiati del sangue di Carlo Di Napoli, il capotreno di Trenord aggredito a colpi di machete lungo la linea Rho-Rogoredo. Se Di Napoli è ancora in vita, se Di Napoli non ha perso il braccio, lo deve anche a questa ragazza di 28 anni. È stata lei la prima a soccorrerlo, sulla banchina della stazione di Villapizzone, e a capire che occorreva contenere l’emorragia. CHOC Un frame dell’aggressione al capotreno; sotto, Erika Santoro

Erika, perché ha deciso solo ora di uscire allo scoperto?

"Perché mi piacerebbe contattare Carlo, rivederlo, capire come sta".

Lei la sera dell’11 giugno era a bordo di quel treno?

"Esatto. Tornavo a casa da Rho, lavoro sul sito Expo".

Ha assistito allo scoppio della lite tra i capitreno e il gruppo di sudamericani?

"No, ero in un altra carrozza. Ad un certo punto ho sentito le urla spaventate degli altri passeggeri: “Si stanno picchiando”, “Via via”, “Bisogna uscire”. Il treno era pieno. Ho abbandonato lo scompartimento senza capire il perché. Villapizzone non era ancora la mia stazione. Una volta sulla banchina, ho visto sulla mia destra un uomo in mezzo ad una pozza di sangue".

Come ha reagito?

"Ero lontana da Carlo. Ho visto che intorno a lui c’erano altri passeggeri, non molti, i più scappavano. Ma nessuno faceva niente per quell’uomo a terra e allora sono andata verso quella pozza. Più mi avvicinavo e più mettevo a fuoco che il sangue usciva dal braccio del capotreno e che il braccio era attaccato al resto del corpo per un lembo di pelle. Ripeto: nessuno faceva nulla. E a quel punto mi sono fatta forza e sono intervenuta".

Che ha fatto esattamente?

"Ho strappato la cravatta ad uno dei tre uomini che erano lì intorno a Carlo e l’ho stretta intorno al braccio per contenere l’emorragia di sangue. In quegli ricordo che una signora si è avvicinata al ragazzo per fargli una carezza ed è interventi anche l’altro capotreno (Riccardo Magagnin ndr), ferito alla testa. Anche lui grondava sangue. Abbiamo recuperato la valigetta del pronto soccorso sul treno. Ma niente lacci emostatici. La cravatta stringeva poco, serviva altro...".

E siete ricorsi ad una cintura.

"Sì, ad un certo punto qualcuno mi ha passato una cintura da uomo, credo proprio che fosse quella del collega di Carlo. E con la cintura siamo riusciti a moderare la fuoruscita di sangue".

E Carlo nel frattempo?

"Carlo sulle prime parlava, diceva che aveva paura di perdere l’arto e che aveva paura di perderlo soprattutto per la sua bimba di 5 mesi perché voleva continuare a tenerla in braccio, ad abbracciarla a sé. Col passare dei minuti parlava sempre meno, le palpebre sempre più socchiuse...ho capito che stava perdendo conoscenza e gli ho fatto mille domande per tenerlo cosciente...".

Ha visto gli aggressori?

"No. Poco e male. Di spalle mentre fuggivano".

Prende ancora quel treno?

"Devo. Per il lavoro. I primi due giorni è stata durissima, ero sotto shock. Ora va meglio, un poco meglio: la paura c’è sempre, c’è ogni volta che si sale a bordo".

giambattista.anastasio@ilgiorno.net

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