Milano, 29 ottobre 2019 - Lo chiamava «scemo», si rivolgeva al suo bimbo solo e sempre con questo appellativo. Nessuno al piccolo e sfortunato Mehmed Hrustic aveva mai insegnato nemmeno a parlare. Nei suoi due anni scarsi di vita lui è stato solo «lo scemo», il capro epiatorio dell’odio e della malvagità di suo padre Alija, in carcere dal maggio scorso, con l’accusa di averlo torturato e ucciso. É la prima volta che viene contestata la tortura in ambito di maltrattamenti familiari. L’orrendo delitto è avvenuto la notte del 22 maggio in via Ricciarelli, zona San Siro. Nell’avviso di chiusura indagini, notificato ieri mattina dal pm Giovanna Cavalleri, si legge un racconto drammatico delle ultime ore del piccolo.
Mehmed è morto in modo disumano. Quando il padre tornava a casa strafatto di cocaina se la prendeva con lui, solo con lui. «Era capace di fargli qualcunque cosa», racconterà la madre del piccolo scagionata da ogni accusa e riconosciuta lei stessa vittima. Il giorno in cui Mehmed è morto aveva preso talmente tante botte in viso e sul corpo da essere irriconoscibile. La notte prima il padre si era arrabbiato perché il piccolo si lamentava. Aveva i piedini bruciati, i medici accerteranno che gli mancava uno strato di pelle dalla pianta dei piedi, bruciata completamente dalla fiamma di un fornello.
Non gli avevano messo il pannolino, lui piangeva per la sofferenza enorme provocata dalle bruciature e si era sporcato dei suoi stessi escrementi. Il padre torna a casa dopo aver consumato cocaina e comincia a torturarlo. Punta alla testa del piccolo come se fosse un pungiball, calci e pugni in testa gli provocano una emorragia diffusa, il bimbo però non muore subito, ha una agonia di molte ore, in cui il padre, come un pugile impazzito continua a picchiarlo, poi lo morde sulle braccia, sulle gambe. Lo vede inerte, con la fronte sfondata dai calci, ma non si ferma, si accende due sigarette e poi gliele spegne sul petto, di fronte alla madre terrorizzata almeno quanto gli altri due fratellini. Poi si calma. Il piccole Mehmed non è ancora morto, la madre cerca di fasciargli i piedi e lo mette a letto.
Il piccolo rantola, non respira, ma nessuno chiama i soccorsi. Il padre toglie il telefono alla madre e la picchia usando fili elettrici. Tutto l’orrore davanti agli altri bambini. «Fin dall’inizio della loro relazione - si legge nell’avviso di chiusura indagini notificato all’uomo - ingiuriava e picchiava il più delle volte alla presenza dei figli minori (…) la convivente (…) colpendola con schiaffi, pugni e calci, a volte utilizzando una cintura, in altre occasioni servendosi del bastone di una scopa o di grossi fili elettrici». Nell’atto si legge ancora che l’uomo, assistito dall’avvocato Giuseppe de Lalla, «dal mese di aprile 2019 minacciava la compagna di uccidere lei e la sua intera famiglia laddove si fosse allontanata da casa o avesse chiesto aiuto». Aljica Hrustic, ha confessato l’omicidio davanti al pm Giovanna Cavalleri, lucidissimo, per nulla empatico, quasi come fossero fatti che lo riguardano sì, ma fino a un certo punto. E il calvario di quel piccolo bambino è difficile anche solo da immaginare.
Quando i soccorsi sono entrati nell’appartamento occupato in via Ricciarelli 22, Mahmed era steso sul letto, un piccolo corpo tumefatto, con i piedi fasciati. «Venite, c’è un bambino che fatica a respirare», la telefonata del padre, ma il piccolo era già morto, forse da due ore. Come è stato ricostruito nelle indagini della Squadra mobile, l’uomo è fuggito poco dopo il delitto, avvenuto intorno alle 3 del mattino nell’appartamento popolare in cui viveva con la moglie Silvija Zahirovic, 23 anni, rom croata e incinta del quinto figlio. La donna, che era sotto choc di fianco al cadavere del piccolo quando è arrivata la polizia, ha indicato il marito come responsabile dell’omicidio.