Coppia diabolica, cinque fucili ad acqua per sparare acido: il fotografo da abbattere

Martina contattò gli ex. E Alex chiese il porto d’armi

Martina Levato e Alex Boettcher

Martina Levato e Alex Boettcher

Milano, 17 settembre 2015  – Fucile a vernice. Un bel numero: cinque. Il nuovo strumento per non entrare in contatto ravvicinato con le vittime predestinate. Lancio d’acido (il serbatoio di un fucile tiene almeno mezzo litro) a discreta distanza, con quella specie di giocattoli innocui. Che, trovati in numero considerevole - due in auto e tre nel loft di via Alessi di Alexander Boettcher - assumono ora altro peso. Non erano per bimbi o nipotini, erano - ritengono gli investigatori - per la vittima che l’aveva scampata: Giuliano Carparelli, il fotografo, che tra discoteche e relazioni libere (una con Martina Levato, senza che lui ne avesse trattenuto memoria) era riuscito a sfuggire il 15 novembre al primo tentativo di purificazione, e il 22 e 23 novembre anche agli appostamenti successivi.

E, tra le pieghe del dibattimento a carico del broker detenuto per l’assalto a Pietro Barbini e a processo per gli altri agguati (contro Stefano Savi, ieri coraggiosamente in aula, e Carparelli) emerge tutta la virulenza e la capacità organizzativa dell’associazione per delinquere intestata a Boettcher e a Levato, come organizzatori, e a Andrea Magnani come esecutore.

Il pubblico ministero Marcello Musso, all’apertura del dibattimento a carico del solo Boettcher (gli altri due coimputati hanno scelto il rito abbreviato, da domani davanti al gup Roberto Arnaldi) punta dritto agli strumenti che il clan usava per circuire, adescare, colpire le proprie vittime. Lo fa nel primo interrogatorio del teste d’accusa, il dirigente delle Volanti, Maria Josè Falcicchia, che ha condotto le indagini. Quei fucili ad acqua - che ora si pensano destinati ad armare un piccolo esercito per colpire il recalcitrante e fortunato Carparelli - furono fotografati ma non sequestrati, nei giorni successivi all’agguato del 28 dicembre a Pietro Barbini. Impensabile, allora che la saga dell’acido non aveva riavvolto la moviola alle aggressioni precedenti, collegare quegli innocui fucili ad acqua a tanta perversione. Ma ora il processo porta alla luce i particolari della pervicacia e scientificità, della logica del male. Lo stesso giorno in cui la banda sarebbe poi scesa in campo in via Giulio Carcano per assalire l’ex compagno di Martina al Parini, Pietro, Martina - con organizzazione ragionieristica - a 50 minuti passati la mezzanotte non perdeva tempo e riagganciava un ragazzo nordafricano, Amir A., residente a Londra e con cui aveva flirtato a Ibiza, nell’intensa estate precedente. Gli chiedeva di venire a una festa a Milano. E insisteva per farsi ricordare da lui che tipo di rapporti intimi avevano avuto (dando luogo a pensare che le domande, col suo telefonino, le facesse Boettcher).

Intanto Boettcher - che in maggio riceveva dal suo medico di base la prescrizione di una visita psichiatrica per crisi ansioso depressive (la sofferenza per i tradimenti di Martina ormai scoperti?) - il 4 dicembre aveva fatto richiesta di porto d’armi per uso sportivo (sportivo?), che verrà negata in gennaio, quando ormai è in carcere per l’assalto a Barbini. Intanto Martina ha avviato la prima purificazione tentando di accoltellare l’ex compagno di università, ed ex flirt ovvio, Antonio Margarito. Per poi passare all’acido. Ma non quello da supermercato a pochi centesimi.

LA POLIZIA scientifica di Roma riesce ad analizzare il tipo di corrosivo, rilevandolo dagli abiti di Stefano Savi: è acido solforicoad alta concentrazione. Ed è del tutto compatibile con quello che l’ispettore Mauro Antignano rintraccia nell’acquisto dal computer e dalla postepay di Magnani: una boccia da 204 euro e 70 centesimi, via internet, dalla ditta Zetalab di Padova. Con il solforico, anche l’arsenico. E dei residui di quella roba cattiva non si è mai trovata traccia, se non sulle vittime degli sbandati dell’acido.

marinella.rossi@ilgiorno.net

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