
di Stefano Zanette
Un amico di famiglia, che quando i genitori non c’erano si sarebbe dovuto occupare della bambina, di soli 11 anni, affetta da defict psichico. Ma quando restava solo con lei avrebbe commesso "gravissimi abusi sessuali".
L’uomo, 63enne della Lomellina, era stato sottoposto a fermo di polizia giudiziaria, da parte dei carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo del comando provinciale di Pavia, il 3 agosto dello scorso anno, portato nel carcere di Pavia, dov’è rimasto recluso. Ieri in Tribunale, a conclusione del processo che si è celebrato con rito abbreviato, è stata emessa sentenza di condanna a 10 anni di carcere, uno in più dei 9 chiesti dall’accusa. Disposta anche una provvisionale di 50mila euro alla vittima, che attraverso un curatore speciale, nominato all’avvio dell’indagine, si era costituita parte civile al processo, rappresentata dall’avvocato Francesca Timi.
Un giudizio di primo grado, al quale ovviamente potrà essere presentato ricorso in Appello, dopo il deposito delle motivazioni della sentenza. L’avvocato Stefano Uggetti, per la difesa dell’imputato, nel corso del procedimento aveva chiesto di sottoporre il suo assistito a perizia psichiatrica. Ma la richiesta non era stata accolta dal giudice Luigi Riganti, in assenza di riscontri come ricoveri o trattamenti pregressi che potessero lasciar ipotizzare una patologia o una fragilità psichica dell’imputato.
La vicenda era emersa dopo le segnalazioni di alcuni frequentatori di un parco pubblico, dove il 63enne avrebbe commesso gli abusi. I carabinieri avevano subito acquisito i filmati registrati dalle telecamere dell’impianto di videosorveglianza comunale, riscontrando "gravi indizi di colpevolezza" che avevano portato all’immediato fermo del sospettato, eseguito "anche nel timore che si ripetessero le violenze nei confronti della minore - come spiegato dai carabinieri nel comunicato del 4 agosto dello scorso anno - tanto più che si è accertato che il suo aguzzino frequentava abitualmente il suo ambiente familiare".
Oltre ai video delle telecamere nel parco pubblico dov’erano stati commessi i presunti abusi, altri riscontri raccolti nelle indagini e portati come prove d’accusa al processo erano il Dna dell’imputato sui vestiti della vittima e anche alcuni messaggi sul telefonino.
