DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

La morte a Venezia al Piccolo: "Anche solo uno sguardo può cambiare il mondo..."

Liv Ferracchiati torna a Milano per esplorare il rapporto fra bellezza e atto creativo "Rivendico il fallimento come momento artistico formativo, con un suo valore importante".

Liv Ferracchiati con Alice Raffaelli fino. al 25 maggio (foto Tommaso Le Pera)

Liv Ferracchiati con Alice Raffaelli fino. al 25 maggio (foto Tommaso Le Pera)

Neanche ci si potesse permettere lo sguardo in camera di Antoine Doinel. Eppure è proprio da quelle parti che si muove Liv Ferracchiati. In cerca dei dettagli e dei simboli. Si supera la parola. Mentre una videocamera indaga ogni angolo del palco e dei performer, proiettando dal vivo le riprese. Manomettendole. Insomma: progetto multidisciplinare "La morte a Venezia" del regista umbro, a lungo artista associato del Piccolo, fino al 25 maggio allo Studio. Un Thomas Mann poco viscontiano. Quasi concettuale. Con lo stesso Ferracchiati nei panni di Aschenbach, l’anziano scrittore che si invaghisce del giovanissimo Tadzio, ovvero la danzatrice Alice Raffaelli.

Liv, qual è il cuore del progetto?

"La riflessione sullo sguardo e su come sia in grado di modificare le persone, in una dialettica relazionale priva di parola. Tutto questo amplificato dal fatto che a vivere l’esperienza sia uno scrittore, qualcuno che lavora con le parole".

Un paradosso quindi.

"Sì, da cui emerge l’interrogativo se sia possibile utilizzare la parola per condividere esperienze non narrabili. Ma l’impossibilità di raggiungere la bellezza sensoriale, ne determina in qualche modo il fallimento. “Meglio i sensi Tadzio, meglio il corpo delle parole“, afferma Aschenbach nel finale. Una grande metafora dell’ispirazione artistica e della possibilità di condivisione".

Una condivisione sempre parziale?

"Esattamente. È il racconto di quello stare sul baratro di un materiale infuocato da cui puoi attingere ma soltanto in minima quantità. Wittgenstein ripeteva che il suo lavoro consisteva in due parti: quello di cui era riuscito a scrivere e quello di cui non era riuscito, reputando quest’ultimo molto più importante del primo. Da lì passa la forza generatrice dell’arte".

Cosa rimane dell’erotismo e della differenza di età?

"Sono aspetti appartenenti a un primo piano di lettura, meno interessanti di altri. Tadzio trova profondità nel suo simbolismo. Interpretazione che Thomas Mann fa intuire anche in quel dettaglio della macchina fotografica su un treppiede in spiaggia, abbattuta dal vento nel momento della morte. È solo una riga, passa inosservata. Ma rimanda proprio al valore della riflessione sullo sguardo e sul processo creativo".

Per questo ha inserito una videocamera live nello spettacolo?

"È un confronto fra linguaggi, dove viene moltiplicata la potenza dello sguardo, aprendo alla possibilità di lavorare sui dettagli e sui primi piani. Anche perché Alice in scena non parla, è solo corpo, movimento, danza. Io sono un metaforico Aschenbach, lei un Tadzio universale, anche nell’oscillazione fra generi".

Come è stata l’esperienza da artista associato del Piccolo? "Una grande possibilità, il privilegio di poter lavorare a un livello di eccellenza in ogni campo, ho imparato tantissimo. Ora vivo un nuovo inizio allo Stabile di Torino. Farò per loro “Tre sorelle“, ho già terminato il cast".

Cosa avrebbe fatto diversamente in questi anni?

"Con Hedda Gabler non sono riuscito ad andare dove volevo. Tuttavia rivendico il fallimento come momento artistico formativo, con un suo valore".

Cosa invece ha funzionato?

"Sono molto legato alla mia Trilogia sull’Identità, in particolare a "Stabat Mater", che dal 27 maggio riproporremo qui al Piccolo Teatro Grassi".