DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Elio De Capitani all’Elfo Puccini: “Sia francescano che socialista. Ecco il mio Re Lear sul palco”

Da mercoledì con il capolavoro shakesperiano si apre la stagione in corso Buenos Aires Il regista: “Questo spettacolo è sempre stato considerato difficile, ma è teatro puro”

Elio De Capitani

Elio De Capitani

Milano, 22 ottobre 2023 – È vanesio Re Lear. Manipola i sentimenti, gioca con l’amore (presunto) delle figlie. Prende decisioni bizzarre, si confonde, cambia idea. Abbandona il gioco e muove guerra. Il mondo è cattivo, ma poi capisce che solo lui ha avuto in mano le carte. Insomma: un uomo fuori norma il sovrano di Britannia, gonfio di cicatrici e di contraddizioni. E allora non poteva che essere Elio De Capitani a farci i conti. Lui il protagonista della nuova produzione shakesperiana firmata Elfo Puccini, da mercoledì in corso Buenos Aires. Alla regia Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Sul palco una squadra solidissima: Mauro Bernardi, Elena Ghiaurov, Mauro Lamantia, Giuseppe Lanino, Viola Marietti, Giancarlo Previati, Alessandro Quattro, Elena Russo Arman, Nicola Stravalaci, Umberto Terru so e Simone Tudda.

De Capitani, com’è il vostro Lear?

"Tiene inchiodati alla poltrona. Mi ha impressionato l’applauso del pubblico dopo l’anteprima di Perugia. Shakespeare è grande e chi pensa che Re Lear sia un testo irrappresentabile non ha capito nulla. È teatro puro". Parla del critico Harold Bloom, non il primo che passa. "Anche lui lo considera un capolavoro assoluto ma dalle difficoltà enormi. Invece la tragedia è una macchina teatrale perfetta, in cui si aprono storie parallele, cambi repentini, momenti intensissimi. E nonostante una vita dedicata al Canone Occidentale e a Shakespeare, credo che Bloom sbagli anche nel momento in cui considera le figlie i mostri della vicenda, assolvendo il sovrano. In realtà viene tutto da lui. È sua la responsabilità, che nasce dal non essersi occupato né della famiglia né del suo popolo. Tanto che a volte dice cose che paiono apocrife".

Del tipo?

"C’è un passaggio in cui ragiona addirittura sulla povertà e la necessità di spogliarsi di tutto". Filosofia francescana.

"Esattamente. Francescana e socialista".

Come si è preparato?

"Leggendo qualsiasi cosa. Ma non serve. Ogni scena richiede una tale verticalità, che non c’è analisi che possa preparare davvero. Il sapere interviene successivamente. Solo ora sto recuperando quello che ho studiato in precedenza".

Interpretare un ruolo la mette ancora in discussione?

"Certo, è da lì che passa ogni possibilità di raggiungere tridimensionalità. Un confronto profondo, che mi ha portato ad esempio a ricordare quando anch’io mi facevo prendere dall’ira, salvo dopo pentirmi di avere avuto reazioni sproporzionate. Invecchiando ho imparato a contare fino a dieci. E anche Lear è un po’ così".

Avrebbe potuto farlo prima? "No, sarebbe stato impossibile. Ci sono voluti questi cinquant’anni di teatro e alcuni ruoli fondamentali: Roy Cohn di "Angels in America", il commesso Willy Loman di Arthur Miller, Achab di Moby Dick. Ognuno ha contribuito a suo modo, pur nelle differenze. Roy osserva crollare quello che ha costruito, dopo una vita priva di empatia; il commesso è una figura senza potere, ma incapace di ascoltare i figli; mentre Achab è la dimensione ossessiva, indulgente verso se stesso nell’autocommiserazione. Re Lear è un viaggio nella dimensione dell’uomo".

Farsi dirigere da altri le ha permesso di dare una cornice al ruolo?

"Non ho mai pensato di fare io la regia, anche perché non avrei saputo a chi dare il ruolo… Ma al di là della superbia, la mia è una condizione di lavoro ideale".