
Francesca Sangalli, presenta “A Londra non serve l’ombrello“ mercoledì al Menotti
Milano – On the road. A ritrovare sé stessi. E quel mondo bizzarro, colorato, certo molto più grande delle quattro vie stanche intorno a casa. Libro non etichettabile “A Londra non serve l’ombrello“ di Francesca Sangalli, appena uscito per Giunti. Stratificato e poetico, come sempre la scrittura della drammaturga milanese (fra i suoi testi Midia, Poesie anatomiche per il LAC, “Le otto montagne“ da Cognetti). Dove si racconta di un’anima inquieta che rimette a posto i tasselli della propria esistenza. Trasferendosi a Portobello. S’intrecciano vita e finzione. E nel frattempo muore la regina, si scalano pareti, il Carnevale è matto e ti porta via. 350 pagine suggestive, colte, autoironiche. Da scoprire mercoledì alle 18.30 al Teatro Menotti. Oppure sabato al Salone del Libro.
Francesca, cosa l’ha spinta a partire?
"Da tempo riflettevo sulla difficoltà di scrivere nel momento in cui la vita si arrotola su sé stessa. L’assenza di esperienze limita il campo visivo e quindi l’ispirazione. È come se tutto si risolvesse nella routine: lavoro, scuola, giardinetti, compiti dei figli, un teatro, i Simpson prima di dormire. Ma così lo sguardo si addormenta, tanto che ti domandi se sei ancora un’artista".
Risposta?
"Avevo bisogno di tornare a guardare. Partire ha creato le condizioni per indagare questa necessità e Londra mi ha accolta con quella sua luce straordinaria, che entra di taglio dalle finestre senza tende. Certi giorni mi sembrava di essere in Mrs Dalloway di Virginia Woolf".
Quanto c’è di lei nella protagonista?
"È un personaggio romanzato, a me vicino per alcuni aspetti o episodi ma ad esempio decisamente più accessibile e portata alla confidenza di quanto sia io nella vita".
Orizzonte da autofiction?
"Sì, dove a livello formale puoi riconoscere certe scelte stilistiche utilizzate da Carrère in “V13“. Ho tentato di intrecciare la vita con lo sguardo sull’umanità intorno a me, muovendomi come a scatti fra una conversazione da caffè, un pensiero notturno, il frammento più comico".
Un incontro rimasto sottopelle?
"Il nostro vicino, ospite di una casa famiglia. Lo osservavo in silenzio, indaffarato in un quadrato di cortile. Uno di quei casi in cui ti ritrovi nell’altro, su piani diversi dell’esistenza. Qui nel confronto con uno sconosciuto che spazzava il vialetto già in agosto, ogni volta ricominciando da capo. Capisci che quando è arrivato l’autunno è stato un disastro...".
Ci sono pagine che aprono alla poesia: come mai questa scelta?
"Da mesi sperimentavo sulla slam poetry, quindi una scrittura parlata, che si sviluppa oltre la pagina scritta. Nel libro ho cercato di proteggere questa visione, in una serie di ritratti che ricordano l’Antologia di Spoon River. Ma con Andrea Zanzotto come riferimento principale".
Il poeta veneto.
"Venne da noi al liceo e ancora me lo ricordo. Amo la sua totale libertà espressiva, così orale, anticonvenzionale. La capacità di arrivare forte all’emozione utilizzando qualsiasi strumento tranne la logica. Come se la poesia fosse l’arte di tratteggiare schizzi in grado di travolgere".
Dopo tanto teatro, come ti trovi nella letteratura?
"Il palcoscenico rimanda emozioni quasi violente, mentre osservi l’interprete incarnare e modificare nel corpo la tua scrittura. Il libro è un progetto dai tempi più ampi, solitario, un oggetto che ti contiene, invariabile nel tempo, affidato allo sguardo unico e personale del lettore".
In certe pagine c’è qualcosa di cinematografico.
"Sarebbe bellissima una serie tv dal libro! Nei miei sogni inconfessabili si trasforma in una specie di “Fleabg“".
L’ironia rimane una chiave della tua scrittura.
"È così. Ma considero la comicità solo uno fra i tanti strumenti per osservare la vita, pronto a sfumare di fronte al dolore".
Quindi perché leggere “A Londra non serve l’ombrello“?
"Per disincantarsi. Per trovare il coraggio di schiodarsi. Forse anche per sorprendersi un pizzico di fronte a qualcosa di sincero".