ANDREA SPINELLI
Cultura e Spettacoli

Bobby Solo: "Mi commuovo ancora per Elvis. E che il cielo benedica i Måneskin"

Il cantante, con Paul Ambach, sul palco di Jazzmi domani: "Cantavamo il rhythm’n’blues, io alla chitarra e lui al piano"

Bobby Solo, nome d'arte di Roberto Satti

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Milano, 7 ottobre 2022 - Settantasette anni "…e tre quarti" di rock’n’roll. In concerto domani sera alla Santeria Toscana 31, nell’ambito di JazzMi, Bobby Solo scherza sull’età e sulla grande passione per Elvis, Bill Haley, Gene Vincent e tutti gli altri eroi di una mitologia musicale che ha sempre accompagnato tra le corde della sua chitarra a quella per il blues. "Sono ormai 35-40 anni che nei concerti eseguo, oltre a mie glorie come ‘Gelosia’, ‘Se piangi se ridi’, ‘Una lacrima sul viso’, brani blues di Lightnin’ Hopkins, John Lee Hooker, B.B. King, Steve Ray Vaughan, Johnny Cash – dice –. Stavolta lo fa sotto l’egida di un festival jazz. Per non fare brutta figura, porto con me un amico belga di origine israeliana, Paul Ambach, meglio conosciuto come Boogie Boy. Fino al Duemila è stato un grande impresario, che ha organizzato nel nord Europa concerti di Stones, McCartney, Sinatra, Madonna, poi ha iniziato ad esibirsi".

Come vi siete incontrati? "Siamo diventati amici nel 1970, quando organizzò un mio concerto ad Anversa. In estate, quando era libero dagli impegni, piombava nella mia vecchia casa di Roma e, in mansarda, cantavamo il rhythm’n’blues; io alla chitarra e lui al piano Fender".

Al tempo aveva pure il suo studio di registrazione. "Quando a metà degli anni Settanta per gli artisti della mia generazione arrivò un po’ di crisi, Morandi si mise a studiare il contrabbasso e Paoli si rifugiò nei club. Io, invece, vendetti sei appartamenti per costruirmi uno studio di registrazione che chiamai Chantalain unendo i nomi dei miei primi due figli Chantal e Alain. Arrivò pure Napoli Centrale, ma avevano dei tempi di lavoro un po’ particolari se è vero che iniziavano alle nove di sera e staccavano alle otto di mattina. Al terzo giorno di registrazioni il fonico collassò per la stanchezza e James Senese, contando sul mio orecchio musicale, mi chiese di fargli da tecnico del suono. Così in brani come ‘Sotto a’ suttana’ e ‘Sotto e ‘n coppa’ ci sono io".

Ci sono passati in molti, dal Banco a Patty Pravo. "Un giorno il giornalista dell’Unità Michelangelo Romano affittò lo studio per missare un album di Ornella Vanoni. Mentre eravamo al lavoro, si presentò un ragazzo napoletano con i pantaloni di velluto blu, Camperos, e una maglietta Fruit of the Loom: era Pino Daniele. Mi chiese di ascoltare un suo provino, ‘Ca calore’ che trovai molto bello".

Cosa accadde? "Pino mi chiese di lavorare e io gli feci fare otto-dieci feste di piazza nel Lazio, a cominciare dalla Sagra del Carciofo di Ladispoli dove mi accorsi che era un fenomeno, perché suonava come BB King. Aveva una chitarra Gibson SG, come quella usata da Santana a Woodstock, anche se col manico rotto e rincollato con l’Attack. Lo ingaggiai per 150 mila lire a sera e lo portai in Belgio dove, grazie proprio ad Ambach, tenemmo cinque concerti. Pure Lucio di Battisti, prima del successo, frequentava casa mia e mia madre gli faceva la frittata con le cipolle. Eravamo entrambi del segno dei Pesci e molto amici. All’inizio arrivava con una Cinquecento rossa targata Rieti, poi, grazie ai primi anticipi della Ricordi, si presentò con una fiammante Giulia GT".

Ha visto “Elvis” di Baz Luhrmann? "Sì. E ho pianto. Quando ero un bamboccione di 14 anni, infatti, m’innamorai perdutamente del suono dei dischi di ‘The King’ prima ancora che del suo personaggio. Mi sembra che in Italia sia in atto una riscoperta del rock’n’roll. Effetto Måneskin? Probabilmente sì. Che il cielo li benedica".