Como, nel 1999 l’omicidio di don Beretta: "Era mio zio, non un martire"

La nipote del parroco di Ponte Chiasso, vittima di un agguato fotocopia. "Entrambi vivevano il Vangelo in modo totale"

Un'immagine di don Renzo Beretta

Un'immagine di don Renzo Beretta

Como, 18 settembre 2020 -  Don Renzo Beretta e don Roberto Malgesini. Qualcosa, anzi molto, li ha accomunati, e non solo la morte violenta di entrambi con impressionanti coincidenze. Don Beretta, parroco di Ponte Chiasso, viene ucciso a coltellate la sera del 20 gennaio del 1999 da un clandestino marocchino. Ombretta Annoni, pedagogista, vive a Como. È la figlia di Mario, nipote e soprattutto amico di don Renzo.

Signora Annoni, conosceva don Malgesini? "Non benissimo. sapevo il lavoro che stava fcendo nell’aiutare le persone in grossa difficoltà".

In cosa erano simili don Beretta e don Malgesini? "Secondo me c’era più di una similitudine. La prima era che entrambi vivevano il Vangelo in modo totale, lo vivevano per quello che è il Vangelo, per quella che è la volontà del Vangelo, soprattutto nell’aiutare i bisognosi. Capiamoci. Non erano martiri e non avevano la vocazione al martirio. Facevano ciò in cui credevano e lo facevano attraverso il Vangelo. Non era martirio. Mio padre, legatissimo allo zio, non lo ha vissuto come tale. Lo zio ha sempre creduto nella sua forza di volontà. Il nonno di mio padre gli diceva: ‘Quello che fai lo devi fare con coerenza’".

Allora, come può essere definire il loro operare? "Quando uno fa con decisione e determinazione ciò in cui crede, questo è un votarsi. Non è martirio. Don Roberto mi sembrava molto simile allo zio in questo: vivere le cose dette dal Vangelo in modo totale, ma coerente all’ambiente che lo circondava nei tempi attuali".

Mario, suo padre, diceva che lo infastidiva vedere don Renzo dipinto come il prete dei disperati. Era prima di tutto un parroco. "Quelli che l’hanno conosciuto lo dicono ancora: era lì, era il parroco, il parroco di Ponte Chiasso, così come poco prima era stato il parroco di Solzago".

Persone simili, accomunate anche dalla morte e dalle circostanze in cui è venuta. "È come se nella loro fine non ci sia stata casualità. Probabilmente c’è come un messaggio che entrambi ci volevano lasciare per dirci che c’è qualcosa che di non è risolto. Come un filo fra l’uno e l’altro, fra le due parrocchie".

Entrambi si sono trovati a fare accoglienza davanti al fenomeno dell’immigrazione, dell’emarginazione. "Il disadattamento non è legato solamente all’immigrazione. Ci sono tanti italiani che lo vivono e che per questo hanno bisogno di aiuto. L’immigrazione ha diviso Como al tempo di mio zio e la divide anche oggi. C’è tanta immigrazione giovanile. Siamo in un momento difficile non soltanto per l’Italia ma anche per le altre nazioni europee. Questo deva farci riflettere un po’".

Cosa ha lasciato don Renzo Beretta? "Dal mio punto di vista personale tantissime cose. Ha celebrato le nozze dei miei genitori e le mie. Ero incinta e mi ha chiesto se sarebbe stato maschio o femmina. Gli ho risposto che non lo sapevo. ‘Vedrai che sarà femmina’, mi ha detto. È nata Asia. Per me era uno zio, lo zio Renzo. Non l’ho mai chiamato don. Lui personificava l’accoglienza. Era accogliente con le persone che avevano bisogno, a cominciare da noi familiari. E lo era con tutti. Non ricordo che abbia mai detto di no a qualcuno che ne avesse necessità. Non dava soldi, ti accoglieva. Però ti ospitava per quello che eri in quel momento e ti donava l’accoglienza in quel singolo istante. Anche quando si parlava di cose serie, trovava sempre un momento per sorridere".