EMILIO
Cronaca

Com’era bello l’antico dialetto dei contadini

L'articolo di Emilio Magni racconta la nostalgia per il dialetto contadino brianzolo, ricco di espressioni e modi di dire legati alla vita rurale. Un ritratto affettuoso di un linguaggio che evoca tradizioni e usanze del passato.

Magni

Cessato finalmente il lungo rito del gioco alle carte smorzata la rabbia, abbandonati gli urlati bisticci, tornata la cordialità, gli amici del bar si preparavano a rientrare a casa. Tornando a l’antico linguaggio e al suo bel dialetto di quando era un “paisan“, Il Baldassarre detto “Baltisar“ ha detto: "Alura vèmm in dent", per annunciare che se ne stava andando. Un tempo i contadini della Brianza chiacchieravano così, scandendo le parole lentamente e facendo sentire bene le vocali. Molti parlavano in "erre", come mio nonno Richén. E pensavo che questa caratteristica del linguaggio fosse una sopravvivenza della dominazione francese. Ma che cosa aveva voluto dire “el Baltasar“ con quel: "Vèmm in dent". Era questo l’annuncio che il contadino dava quando si apprestava ad andare a lavorare nei suoi campi coltivati per far diventare rigogliose le colture. Questo “dent“ è probabilmente un abbreviazione di “dentro“: "Andiamo dentro i campi a lavorare". Era carico di fantasie il dialetto dei nostri nonni contadini. Quando il "“resgiù“ aveva deciso che era il momento di estirpare le patate, ordinava: "Nemm a trepà i pomm da tera". In dialetto la patata era “el pomm de terra“, il pomo della terra. “Pomm“ però era anche il frutto della mela. Il contadino quindi ci vedeva la patata come una mela cresciuta sotto terra. "Lu pagà tri cucumar e un peveron" era modo di dire per affermare che avendo fatto un acquisto, il contadino aveva pagato poca lira. Il prezzo era così basso da valere appena tre cocomeri, ovvero tre cetrioli e un peperone. "Poogia" era l’invito che il mungitore faceva alla vacca perché posasse il posteriore e facesse spazio al secchio sotto le mammelle. Un mio amico, salendo con me una scala mobile chiese "poogia" a una signora che, chiacchierando con un’amica, aveva occupato lo spazio da lasciare libero. Questa si arrabbiò molto. Avrei voluto precisare che quel "poogia" era un segno di affetto. Ma ho desistito. C’era il rischio che la parola fosse presa per un’offesa.

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