PAOLA PIOPPI
Cronaca

Cristina Mazzotti, 50 anni fa il sequestro feroce che sconvolse l’Italia. Le sue ultime parole: “Sono io”. Poi la morte nella buca-prigione

Como, la 18enne rapita dalla ’ndrangheta il 30 giugno 1975 e lasciata morire: prima donna vittima dell’Anonima. Dopo decenni a processo gli esecutori del rapimento e dell’omicidio. Il fratello Vittorio: “Chiedevamo prove che stesse bene ma passavano giorni prima di riceverle”

Cristian Mazzotti aveva 18 anni

Cristian Mazzotti aveva 18 anni

Eupilio (Como) – La notte tra il 30 giugno e il primo luglio 1975 Cristina Mazzotti venne rapita. La Mini Minor su cui viaggiava con i suoi amici, Carlo Galli ed Emanuela Lusari, era stata bloccata da un gruppo di giovani uomini che avevano costretto i tre ragazzi ad andare fino ad Appiano Gentile, dove la sola Cristina fu consegnata alla banda di carcerieri.

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Cristina, di soli 18 anni, era stata la prima donna a essere rapita dall’Anonima sequestri al Nord, ma anche la prima a non fare ritorno a casa. Gli uomini che avevano agito quella sera sono stati gli unici a non essere mai identificati, fino a tempi recenti, quando un’impronta attribuita a Demetrio Latella, oggi settantenne, lasciata all’epoca sulla Mini, ha portato alla riapertura del processo attualmente in corso a Como: Latella è accusato di essere stato il rapitore della ragazza assieme a Giuseppe Calabrò, 75 anni e Antonio Talia, 74 anni. Giuseppe Morabito, ritenuto il mandante del sequestro, aveva messo a disposizione l’auto utilizzata per il sequestro: è morto a 80 anni lo scorso dicembre.

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“Per un tempo che mi è sembrato lunghissimo siamo andati avanti – ha raccontato Emanuela Lusari alla Corte d’Assise – A un certo punto la nostra auto si è fermata e sono arrivate alcune persone. Ci hanno fatto scendere dalla Mini e hanno chiesto: chi è Cristina? Lei ha detto: “Sono io’”. Le hanno messo una federa in testa e l’hanno messa su un’altra auto”. Da quel momento, per 27 giorni, Cristina Mazzotti fu tenuta prigioniera in una buca scavata nel terreno della cascina Padreterno, nei pressi di Castelletto Ticino, in provincia di Novara.

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“Mia sorella Cristina – ha ricordato il fratello Vittorio durante il processo – era la piccola di casa. Era una ragazza molto diligente, brava, una buona studentessa, stava terminando il liceo con successo. Era brava… Una brava ragazza. La mia era una bellissima famiglia, c’era una grande unione”. Distesa in una fossa lunga due metri e mezzo e larga un metro e 65 centimetri, meno di un metro e mezzo di profondità, dove l’aria le arrivava grazie a un tubicino di plastica di cinque centimetri di diametro.

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Era il mese di luglio del 1975, e per resistere a queste condizioni, veniva continuamente sedata dai suoi carcerieri, che erano arrivati a somministrarle fino a 200 gocce di Valium al giorno. Alimentata con qualche yogurt, latte e frutta. Cristina, sempre più indebolita, al punto da non reggersi in piedi quando tentavano di toglierla da quella buca per mostrare ai familiari che era ancora viva, alla fine non era sopravvissuta.

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Il luogo dove furono trovati i resti della ragazza

Il suo corpo a inizio agosto era stato gettato in una cava a Varallino, vicino a Galliate, sempre nel Novarese, quando la famiglia aveva già pagato un riscatto di un miliardo e 50 milioni di lire. “Chiedevamo prove che Cristina stesse bene – ha detto ancora Vittorio Mazzotti – ma passavano giorni prima che ce le dessero. Ricordo bene la disperazione dei miei genitori, la disperazione più totale”.

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Una carrozzina rossa abbandonata indicava il punto esatto in cui era stata sepolta, e dove i suoi resti furono ritrovati la sera del primo settembre 1975. Il giorno dopo tutta Italia sapeva della sua morte e l’onda di emozione suscitata da quell’epilogo così tragico ancora sopravvive in chi ha ricordo di quei giorni. Un mese fa a Crevenna, frazione di Erba, le è stato dedicato il parco.

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