Omicidio Macchi, reperti distrutti e l’ok del giudice: mi rimprovero una certa leggerezza

Ottavio D'Agostino, oggi in pensione, ne autorizzò lo smaltimento di GABRIELE MORONI

Ottavio D'Agostino

Ottavio D'Agostino

Varese, 3 maggio 2016 - Quei reperti dell’omicidio di Lidia Macchi depositati all’Ufficio corpi di reato del tribunale di Varese e andati distrutti. L’onda lunga di una polemica esplosa già un anno prima che le manette scattassero ai polsi di Stefano Binda, quando la famiglia Macchi affidò al proprio legale, Daniele Pizzi, un comunicato gonfio di amarezza e incredulità per l’accaduto. Ottavio D’Agostino, in pensione dello scorso settembre, è il giudice che autorizzò la distruzione dei reperti.

Dottor D’Agostino, come andò? «Era il 2000. Venne da me il cancelliere capo dell’Ufficio corpi di reato e mi disse che lì dentro quasi non si camminava più tanto era pieno di roba. Mi chiese se poteva procedere con la distruzione. D’accordo, risposi, però prima mi fate un elenco dei reperti e lo esamino».

L’elenco venne redatto? «Il cancelliere me lo fece. Ma non scrisse, per esempio, “vetrini omicidio di Lidia Macchi”. Scrisse semplicemente “vetrini”. Aggiunse il riferimento in un secondo tempo. Questo mi combinò un po’ di caos. Alcuni reperti erano a Torino per essere esaminati. Da noi c’erano sicuramente i vetrini. L’ho saputo dopo. Quando, circa quattro mesi fa, la collega Manfredda mi ha fatto presente che l’indicazione del caso Macchi c’era, ho precisato che era stata scritta dopo».

Non fece nessun controllo? «L’elenco dei reperti era un pacco di pagine alto così. Lessi la prima e autorizzai. È l’unica cosa che sento di rimproverarmi: una certa leggerezza da parte mia. Spulciare tutto l’elenco avrebbe richiesto almeno tre giorni di lavoro. Teniamo conto che ero l’unico gip del tribunale di Varese, quando l’organico ne prevedeva tre. Non avevo tempo neanche per capire chi fossi io tanto ero impegnato. Al punto che mi portavo il lavoro a casa».

Conseguenze? «Penso che se non fossi stato in pensione mi sarebbe partito un procedimento disciplinare».

E oggi? «Quello che non posso tollerare e infatti non tollero è che si dica che l’ho fatto apposta, come ho sentito in una trasmissione televisiva».

Tra i reperti spariti anche la borsa di cuoio di Lidia, depositata quattro anni dopo l’omicidio - nel 1991, quindi, indicata nel registro con il numero 317/91 - che a rigore non doveva entrare nel grande calderone della distruzione dei corpi di reato compresi fra gli anni 1971 e 1987. Con la borsa svaniti anche gli stivali seminuovi, ultimo regalo del papà per il Natale del 1986. Abiti e indumenti. Undici vetrini con reperti organici dell’assassino, altri due con frammenti di abiti della ragazza. Erano sopravvissute altre testimonianze dell’omicidio, di quelle ventinove coltellate che avevano stroncato il breve viaggio di Lidia Macchi nella vita, la sera del 5 gennaio 1987 alla località Sass Pinì, nel territorio di Cittiglio: minuscoli granelli di terriccio macchiati del sangue della vittima, una mezza dozzina di formazioni pilifere, bobine di intercettazioni, oggetti dell’auto della studentessa, come il disco orario e la spatola frangighiaccio.