REDAZIONE VARESE

Delitto Macchi, le ultime due ore di Lidia: una notte in balìa del suo assassino

Varese, il cadavere vegliato dopo l’omicidio. E l’arrivo di un testimone di GABRIELE MORONI

Lidia Macchi

Varese, 27 marzo 2016 - Prima di essere uccisa Lidia Macchi rimase per almeno due ore in balìa del suo assassino. Un assassino che probabilmente vegliò la vittima per l’intera notte e che al mattino venne sorpreso da un testimone. Particolari sinistri, tragici, che escono dalle carte dell’inchiesta sull’omicidio della studentessa di Varese trucidata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987, alla località Sass Pinì, nelle vicinanze dell’ospedale di Cittiglio. Le testimonianze. Quella di una donna, S.F., che di ritorno da Caravate dopo una cena dalla suocera, scorge la Panda di Lidia, ferma sul lato sinistro di una strada sterrata, di fronte a una villa abbandonata. Sono le 22 del 5 gennaio. L’auto ha i fari accesi. Poco prima delle 10.30 del 7 gennaio viene avvistata e riconosciuta da tre amici di Lidia, come altri impegnati nelle ricerche: i fari sono in posizione di accensione ma con il quadro spento. Lidia Macchi viene vista alle 20.30 da una infermiera scendere le scale dell’ospedale di Cittiglio dove ha fatto visita all’amica Paola Bonari, ricoverata. Quindi alle dieci della sera di quel 5 gennaio, quando la testimone nota la Panda abbandonata con i fari accesi, Lidia è ancora viva oppure è già stata uccisa e l’assassino è ancora lì, nei pressi dell’auto, e non ha ancora provveduto a spegnere il quadro. Un assassino che trascorre l’intera notte con la vittima oppure che torna sul posto in mattinata. C’è la testimonianza di un uomo, A.S, che per due volte, il 6 gennaio, avvista la Panda. Alle 9 scorge l’utilitaria ferma nella stessa posizione in cui l’ha osservata la sera prima la signora S.F.. A cinque-sei metri c’è un giovane. Appena si accorge di essere stato visto, fugge di corsa e sparisce nella boscaglia. È alto sul metro e 70, capelli neri, lunghi, lisci, giubbotto di pelle nera. Le nove del mattino sono un orario improbabile per uno dei tossici che frequentano la zona (e che non avrebbe particolari motivi di timore alla vista del testimone A.S.). Oppure lo sconosciuto è il carnefice di Lidia Macchi?

A.S. guarda nell’abitacolo della vettura. Nota delle macchie di sangue sul sedile del passeggero e delle striature ematiche sulla portiera che attribuisce a qualche tossicodipendente. Non si accorge del cadavere di Lidia, sul ciglio della strada, forse perché è coperto con un cartone. L’uomo ripassa verso le 15 e neppure questa volta scopre la vittima. È stato breve il tragitto di Lidia Macchi dall’ospedale al luogo dell’eccidio. È uscita di casa con l’auto già in riserva. Il contachilometri rivela che ha percorso pochi chilometri. Stefano Binda, amico e compagno di liceo di Lidia e come lei militante di Comunione e liberazione, è in carcere dal 15 gennaio di quest’anno, accusato di essere il suo assassino. Il cardine dell’accusa sono le dichiarazioni di Patrizia Bianchi, che fatto identificare la grafia di Stefano con quella della prosa poetica (e anonima) intitolata «In morte di un’amica», recapitata alla famiglia Macchi il 9 gennaio dell’87, il giorno dei funerali di Lidia. Innamorata di Stefano, affascinata dalle sue doti intellettuali, Patrizia vive da ragazza un amore reso impossibile dalla dichiarata misoginia del giovane. Con un puntiglio tenace da annalista, Patrizia annota tutto quello che le dice Stefano. Lo fa utilizzando il diario scolastico 85-86, sul quale riporta anche annotazioni successive a quel periodo, come quella che si riferisce all’unico bacio ricevuto da Stefano, il 2 dicembre dell’88. Si collega a una cerimonia di suffragio, un mese dopo la morte di Lidia Macchi, un dialogo fra T(eti) e L(oa) (i soprannomi che si davano Stefano e Patrizia). T: «Tu non sai, non puoi neanche immaginare cosa sono stato capace di fare». L: «Forse è x questo, di certo x questo, che non ho insistito nel chiederti perché vai a letto così tardi ....». C’è anche una frase, d’intonazione assolutoria, attribuita a D (don, un sacerdote?) : «Per quanto è nelle tue responsabilità - e questo, solo Dio lo sa - io ti perdono ...». Il 2 febbraio ‘97 la Bianchi trascrive testualmente sull’agenda un’altra frase di Binda: «La cosa che desidero di più è che Dio perdoni i miei errori».