Vent'anni fa ci lasciava Giorgio Gaber: la sua Milano, le sue idee e il suo teatro

Icona del post ideologico e del pensiero forte, perennemente spiazzante e profondamente attuale Giorgio Gaber se ne andava l'1 gennaio 2003 . A raccoglierne l’eredità il Lirico, il teatro che porta il suo nome

Giorgio Gaber

In alto a sinistra Giorgio Gaber ritratto con la moglie Ombretta Colli, accanto con Jannacci, Albanese, Celentano e Fo.

Il suo naso era un punto interrogativo, le narici i due punti. La bocca e il sorriso un punto esclamativo con scoppi teatrali di allegria. Il viso di Giorgio era il teatro dell’assurdo quotidiano, Gaber e Luporini i metronomi, gli annales dei dubbi della generazione post hippy, movimentista, organica alla sinistra e boomer, quelli che avevano visto o creduto di vedere cose che voi giovani umani..., per citare Blade Runner.

Il futuro di ieri, il cinema fantascienza sbaglia sempre i calcoli con l’avvenire, come in “1997: Fuga da New York”. E di oggi, a vent’anni dalla scomparsa di Giorgio (morto il primo gennaio 2023). Perché lui e Sandro avevano cercato fin da subito una terza, dialettica e fluida posizione fra marxismo e neo liberal, post ‘68 e consumismo conformismo, semplicemente osservando, in fondo agli occhi, l’homo politicus e la gente che che si crede normale.

Dopo il jazz e il rock’n’roll, poca America, molta più Francia, il pensiero e la musica, la nostra biodiversità, il particulare dal Novecento al Terzo Millennio. Milano. Post ideologico da subito, gioca a nascondino fra destra e sinistra, un ero comunista cantato molti anni fa.

Fin dall’inizio sali sul tram con Jannacci e scendi davanti al Lirico, il suo teatro. Perché lui è stato il primo a scegliere, dopo un tour con Mina, il palco di un non concerto, un racconto costruito su monologhi e canzoni. Un nuovo genere suggerito da Giorgio Strehler, partendo dal racconto collettivo della cultura popolare milanese. L’occhio terzo di Gaber e Luporini è di chi è arrivato a Milano da fuori ed è poi rimasto o per scelta è tornato lontano, dove i ricchi milanesi andavano in vacanza, la Versilia.

Dopo gli anni ruggenti di pittori e poeti. Un’altra radice comune, dopo il quartiere e il bar dove si sono conosciuti. Il luogo fisico e metafisico dove la canzone d’autore aveva potuto diventare altro. Qui c’era il folk militante di Della Mea e filologico dei Dischi del Sole, la rivoluzione in Ricordi di Nanni Ricordi, cresciuto fra La Scala, il comunismo e New York, la Palazzina Liberty di Dario Fo. Jannacci e Gaber, i due corsari. Il Derby (per capire che il cabaret era un cul de sac). Giorgio era invece spiazzante ad ogni spettacolo, nel lungo pellegrinaggio laico dall’Uomo a Dio. Contemporaneo perché la sua visione di allora è la realtà di oggi, quella senza fede, ideologie, segnali, risposte. Destra Sinistra post ideologica, confusa, egoista, aggressiva, affarista. Senza memoria perché ha dimenticato l’uomo.

Gaber e Luporini ci hanno lasciato una fondazione e l’eredità di un pensiero forte che seppe farsi canzone, un teatro inevitabilmente politico e profondamente umanista, che ci faceva sorridere e riflettere anche su quello che non ci piaceva di noi, perché non si curava di piacere. Apriva gli sguardi, l’ascolto e le menti. Al Lirico è oggi affidato, con la fondazione, il corpus della sua opera, definita da quello che genialmente non è, difficile da riproporre senza la sua voce narrante, la maschera da commedia dell’arte (l’Arlecchino di Strehler), il linguaggio di un corpo che esce sul palco da se stesso. Con il guizzo di un pesce.

Se ne possono leggere e cantare i testi, una sorta di divina commedia laica senza paradiso, tutti in coda nel limbo. Ma chiave preziosa per capire quel che non sta ancora cambiando. Prima di tutto in noi stessi.