Varese, le corse, i trionfi, i lutti e l’amore Ora sogno più sicurezza sulle nostre strade

La seconda vita da team manager del campione di ciclismo Ivan Basso: "Scarponi e Rebellin, le loro morti siano una svolta. Nello sport come sul fronte sicurezza, più fatti e meno lamentele. Sulla strada o dietro la scrivania, i risultati decidono se ci sai fare"

Il  campione di ciclismo Ivan Basso

Il campione di ciclismo Ivan Basso

I suoi sogni di bambino li ha realizzati tutti, o quasi. Ora aiuta gli altri a trasformare in realtà le proprie ambizioni sportive. Ivan Basso, 45 anni, sulla strada “Ivan il Terribile“, due Giri d’Italia vinti, due podi al Tour, un oro mondiale U23 e il ricordo nitido di uno dei talenti più puri del ciclismo italiano; ora, nella seconda vita dopo il ritiro, sport manager del team Eolo Kometa. L’unica cosa che non è cambiata è la scelta di restare ancorato alla sua Cassano Magnago, poco più di 21mila anime.

Impossibile non partire dalla tragedia di Davide Rebellin, ucciso mentre si allenava da un camionista.

"Difficile trovare le parole giuste...Davide per me è stato come Michele (Scarponi, morto nel 2017, investito mentre si allenava, ndr), un amico, un collega, una persona con cui ho condiviso per vent’anni migliaia e migliaia di chilometri in bici. Persone che alla fine conosci profondamente anche se non ti frequenti: i ciclisti sono tutti amici, avversari per quelle 5 ore ma poi c’è solidarietà. Con Davide perdiamo tutti un fratello maggiore, una persona perbene. Il silenzio credo sia il segno del dolore che si porta dentro".

Cosa si può fare per garantire più sicurezza sulle strade a chi va in bici?

"Qui si apre un dibattito enorme, io non mi voglio aggiungere ai tanti. Ma il problema è di proporzioni tali che il singolo non può spostare tanto, prima e dopo Davide ci sono state e ci saranno, purtroppo, altre tragedie. I numeri sono allarmanti, servono prese di posizioni e interventi seri. Partendo dalla cultura. Servono cautela e prudenza, perché non tutti gli incidenti sono uguali, poi però severità. Sull’incidente di Rebellin, credo che tante cose le scopriremo nelle prossime settimane. La sua morte ora deve essere un punto dal quale partire per trovare soluzioni. Andare nelle scuole a sensibilizzare i giovani, costruire più ciclabili, va tutto bene; ma se poi uno è distratto e usa cellulare al volante o è positivo all’alcol, tutto questo non vale più nulla. Io credo che si stia muovendo qualcosa, già da qualche tempo, anche grazie alle associazioni. Ma la strada da percorrere è ancora lunga".

Lei come ha cominciato?

"A 8 anni, in famiglia, perché era la passione dei miei genitori. Una passione che cerco di trasmettere anche qui a Cassano, dove col “bosco di città“ facciamo già andare più bimbi in bici, con l’arrivo di una tappa del Giro riserveremo la zona alta del paese alla bici e i piccoli potranno andare in sicurezza. Stiamo costruendo una serie di attrattive. Anche se capisco che in questo momento difficile anche per chi amministra un paese o una città è difficile stabilire le vere priporità: in un’Italia dove bisogna ricostruire i ponti, dove nel singolo paese magari è fuori norma l’edificio che ospita disabili o anziani, non è sempre facile pensare alle bici. La soluzione è tornare a un concetto antico: quando c’è poco, se ne viene fuori insieme con la condivisione. Ciascuno non guardi il proprio orticello, meglio una Polisportiva dove si centralizza tutto e dove tutte le discipline trovano spazio. Partendo dalla scuola. Il numero di ore di educazione fisica in Italia sono fra le più basse d’Europa. In Slovenia, tanto per fare l’esempio di una nazione che sta tirando fuori talenti e non solo nel ciclismo, sono previste 8 ore di educazione fisica a settimana...".

E il ruolo delle famiglie?

"Ognuno nel suo piccolo deve fare il suo: quanti sono i papà che si spaccano la schiena a insegnare il figlio ad andare in bici nella strada meno trafficata? Non ne vedo tanti... Si parte dalla base...Mia nonna a 3 anni mi ha insegnato ad andare in bici qui a Cassano: “Stai a destra“, “avanti“, “tieni le mani sul manibrio“. Ancora lo ricordo, erano 40 anni fa. Non vedo molti papà fare lo stesso oggi".

E nella sua famiglia?

"Il maschio sta seguendo le orme paterne", sorride.

Tornando indietro, cambierebbe qualcosa della sua carriera?

"Troppo facile dire che cambierei gli errori che ho fatto da giovane, certo se a 25 anni avessi avuto la saggezza che ho raggiunto a 45 anni... Con i “se“ e i “ma“ non si fa molta strada, l’importante è fare tesoro degli errori fatti. E nella seconda parte della mia vita voglio mettere a frutto quanto ho imparato prima, anche sbagliando".

Il più bel ricordo che le è rimasto della carriera da Pro?

"Nei 7 anni da quando ho smesso, ho avvertito ovunque un affetto incondizionato. La sensazione netta che non ho lasciato solo fredde vittorie, ma un ricordo bello e ancora presente nel cuore dei tifosi. E questo per me ha un valore enorme".

Quando ha pensato per la prima volta di fare il manager?

"Che tu sia bravo o meno come team manager, il giudizio spetta agli altri, in modo spietato. Io avevo solo l’ambizione di farlo. Tu puoi decidere di fare quello che vuoi nella vita, ma se sei capace o meno lo dicono i risultati. Valgono le stesse regole dell’agonismo. Competo e verrò giudicato dai risultati".

Si allena ancora tutti i giorni?

"No, perché viaggio molto ed è difficile tenere una continuità, ma mi tengo in forma. La mia è una provincia bellissima per pedalare, abbiamo sette laghi e il Sacro Monte, Campo dei Fiori, l’ultima salita prima delle Alpi, una splendida balconata su Varese. E il Cuvignone, che come Campo dei Fiori è mappata con le colonnine chilometro per chilometro, con le altimetrie, come le leggendarie salite francesi. Uno spettacolo unico".

Fabrizio Lucidi