
Chef Cesare Battisti con Carlo Petrini, fondatore di Slow Food
Se l’era sentito ripetere più volte quell’invito stile Pierre de Coubertin che lo incitava a scendere in campo e a mettersi in gioco. E alla fine aveva accettato: “Ambasciatore Expo 2015”, peraltro sulla filiera del “riso”, alimento identitario per Cesare Battisti, chef di rango che aveva costruito larga parte della propria reputazione come interprete tra i più ispirati del popolare piatto meneghino (ovvio, il risotto) che nel suo bel locale, il Ratanà, “trattoria moderna” tra l’Isola e Porta Nuova, arriva ai tavoli richiestissimo, non meno di quanto lo siano il pane e il vino. Insomma, all’Esposizione Universale lui c’era, peraltro assieme a colleghi blasonati come Davide Oldani, Carlo Cracco, Massimo Bottura, Enrico Bertolini. E te lo immagini onnipresente sui fianchi del Decumano: mentre anima goduriosi show cooking al Padiglione Zero; intrattiene autorevoli delegazioni straniere spiegando loro che nessun Paese come l’Italia può vantare 120 varianti del famoso cereale che sfama mezza umanità; e ricorda ai piccoli e ai grandi che lo spreco di cibo è immorale. "Che euforia. E che energia. Una fantastica festa collettiva, a dispetto delle riserve che molti avevano espresso alla vigilia. Ho ascoltato storie. Ho assaggiato piatti particolarissimi. E ho conosciuto piccoli produttori ammirevoli, che facevano il loro lavoro con sostenibilità quando questa parola non era ancora inflazionata. A Expo ti sentivi come un bimbo in un negozio di caramelle. Ma nello stesso tempo, ti ponevi delle domande: sull’urgenza di buone pratiche a tutela della biodiversità. E sulla cucina moderna, poco interessata agli effetti speciali e invece buona, etica e capace di fare stare bene il prossimo".
Se ne accorsero anche i politici.
"È vero. L’allora ministro Maurizio Martina volle avviare un tavolo di confronto con noi cuochi per promuovere il comparto agroalimentare. Non è un caso che proprio durante Expo 2015 sia nata l’associazione Ambasciatori del Gusto che oggi raccoglie le professionalità più disparate del mondo del food".
Per qualcuno è stata solo un grande luna park dove abbuffarsi...
"Giudizio irriverente. Non era facile gestire padiglioni, cluster e aree intrattenimento su una superficie di un milione e 200mila metri quadrati. Alla fine Expo si è perfino rivelata una piattaforma democratica dove tutti potevano essere ospitati, anche operatori apparentemente distanti tra loro. Ricordo lo spazio di Slow Food: a fianco c’era McDonald’s. L’ho trovata una situazione più che legittima".
Expo ha pure trasformato la città. Per alcuni in meglio. Per
altri in peggio.
"Prima del 2015 aveva 2mila esercizi commerciali che somministravano cibo. Oggi sono oltre 4mila. E Milano è diventata una delle capitali europee nel food. Certo, molti locali aprono cavalcando le tendenze salvo poi vedersi costretti a chiudere. Ma la verità è un’altra: nella ristorazione un’attività funziona se a guidarti sono l‘intelligenza e il buon senso, non la moda".
Il padiglione che l’aveva colpita maggiormente?
"Quello della Corea del Sud, commovente per la cura, per il focus sulle fermentazioni. E per i messaggi che riusciva a trasmettere ricordando a tutti che le nostre scelte hanno una conseguenza".
Ci sono anche ricordi personali...
"Intanto avevo 10 anni di meno – sorride –. E rievoco quel periodo con tenerezza. Andai all’inaugurazione del Primo Maggio 2015 con la mia compagna Federica che in quel momento era
incinta. Ricordo la nostra l’emozione davanti all’Albero della Vita, alle luci, ai suoni e all’esibizione di Andrea Bocelli. Era davvero l’ombelico del mondo e non solo perché a ricordarlo c’era la nota canzone di Jovanotti rilanciata durante la cerimonia. Il nostro primo figlio, Bruno, sarebbe nato poco dopo. Che dire? Expo ha cambiato la vita a Milano. In qualche modo, l’ha cambiata anche a noi".